II “dibattito” sull’inflazione continua a “tenere banco”.
Se le cause della sua esplosione, verso la fine del 2021 e, ancor di più, nei primi mesi del 2022, sonopiuttosto chiare (l’enorme quantità di liquidità immessa sui mercati per superare la drammatica “fase Covid” grazie alla contemporaneità di politiche fiscali e monetarie mai viste in precedenza, che hanno fatto aumentare a dismisura i depositi privati, a cui ha fatto seguito l’aumento dei costi delle materie prime, soprattutto di quelle energetiche, a seguito della guerra in Ucraina), oggi non sono pochi coloro che sono rimasti un po’ “spiazzati” dalla sua resistenza.
Il manuale del “buon economista” ci dice che la regola n. 1 per combattere il rialzo dei prezzi è aumentare il costo del denaro. Il limite di questa misura è che produce i suoi effetti a distanza di qualche mese (allo stesso modo nel caso contrario, con i benefici conseguenti al taglio dei tassi che si percepiscono a distanza di tempo); motivo in più perché una decisione del genere dovrebbe essere presa in tempi brevissimi. E’ successo, invece, che i Banchieri centrali, in primis Powell, guidati dalla convinzione che l’inflazione fosse “passeggera”, abbiano ritenuto non necessario intervenire prontamente.
Allo stesso modo, in questi mesi, in molti ritengono che si stia “perdendo tempo”, tenendo fermi i tassi, non aiutando quindi l’economia a “respirare”, in principal modo quella europea. La BCE, peraltro, al termine del summit di ieri, tramite la Presidente Christine Lagarde, ha comunque fatto intendere che giugno è alle porte, fissando per quella data l’inizio dei tagli.
Diversi, peraltro, sono i motivi per cui l’inflazione, soprattutto quella americana, fatica a scendere.
Le crisi geopolitiche, con le guerre in atto e, forse ancor di più, le preoccupazioni per quanto potrebbe succedere nel prossimo futuro, hanno come naturale conseguenza la corsa agli armamenti. Da qui l’aumento dei budget dei Governi per la Difesa (quello del Pentagono USA oramai non è così lontano dall’incredibile cifra di $ 1.000 MD): situazione che ha fatto aumentare, in tutto il mondo, la produzione di armi (basta guardare l’aumento delle quotazioni di borsa di molte società del settore). A questo si devono aggiungere altre considerazioni, a partire dall’enorme sviluppo conosciuto dall’Intelligenza artificiale, che “assorbe” una quantità ingentissima di energia. E poi la spinta industriale in atto in molti Paesi (vedi la Cina, impegnata a superare una delle fasi più difficili della sua storia), l’aumento della produzione di automotive elettrico, a cui è strettamente collegata quella delle batterie, la transizione energetica che torna ad alzare lo sguardo. Tutte attività che “tengono in alto” le quotazioni delle materie prime, da quelle energetiche (il petrolio è tornato ai valori degli ultimi mesi del 2023) a quelle tipicamente industriali (vd il rame).
Di particolare attualità il tema delle politiche fiscali. Se molte aree geografiche (vd l’Europa) stanno ancora “vivendo” di decisioni prese negli anni scorsi (per es. il PNRR), alcuni Paesi continuano a “tenere aperti” i cordoni della borsa. Il caso più evidente è quello degli Stati Uniti, dove è nel pieno la “battaglia” per le Presidenziali di novembre, con l’Amministrazione Biden impegnata a “non lasciare indietro nessuno”, come l’andamento dell’economia del Paese conferma giorno dopo giorno (ieri sono stati resi noti i dati sui nuovi sussidi di disoccupazione, saliti, nell’ultima settimana, meno del previsto – 211.000 vso attese di 215.000 e i 220.000 della settimana precedente).
Comincia a farsi largo, quindi, l’idea che si può anche “convivere” con un’inflazione un po’ superiore all’agognato target a cui tendono le Banche Centrali. Anche perché non è detto che l’inflazione sia il male assoluto. Almeno 2, infatti, sono le ragioni per cui il livello attuale può essere di aiuto: in primo luogo perché contribuisce ad alleggerire il peso del debito pubblico. Quest’ultimo, infatti, si misura sempre al “valor nominale”, mentre il PIL subisce la spinta dell’inflazione (la sua crescita, quindi, è data dalla somma del livello di inflazione e dall’andamento reale dell’economia): ecco, quindi, che l’inflazione aiuta non poco a migliorare il rapporto debito/PIL.
In secondo luogo, l’inflazione contribuisce a mantenerepiù elevati i ricavi aziendali e, conseguentemente, “da una mano” agli utili. E se gli utili rimangono alti, o crescono, questo permette alle quotazioni aziendali di crescere, evitando l’effetto “bolla” che tanta paura fa ai mercati e agli investitori.
Prematuro dire se il paradigma dell’inflazione target al 2% è destinato a lasciare il posto ad un livello maggiore (3%?). Di certo c’è che gli analisti cominciano a ritenere che probabilmente ciò che più conta è che rimanga “sotto controllo”, non faccia esplodere i salari e mantenga un livello di consumi in grado di sostenere la crescita di beni e servizi e quindi in grado di assicurare la crescita.
Pronto riscatto ieri a Wall Street dei titoli tech, con il Nasdaq che ha chiuso ai massimi di giornata (+ 1,65%). Più cauto il Dow Jones, invariato. S&P 500 + 0,7%.
Nell’ultima seduta della settimana, gli indici del Pacifico vanno a corrente alternata.
Il Nikkei giapponese sia avvia verso una chiusura positiva (+ 0,21%), portando a + 1,3% il rialzo della settimana.
Meno bene la Cina (Shanghai – 0,54%) e Hong Kong (Hang Seng – 2%), con un bilancio settimanale rispettivamente pari a – 2% e + 0,1%.
Futures piuttosto positivi in Europa (+ 0,9% l’Eurostoxx), mentre a Wall Street fanno segnare + 0,10%.
Nuovo rialzo del petrolio, con il WTI che questa mattina sale dello 0,91% ($ 85,88).
Non si muove il gas naturale Usa, a $ 1,768.
Sfonda il muro dei $ 2.400 l’oro, che stabilisce il nuovo massimo di sempre toccando i $ 2.411, + 1,56%.
Spread a 135 bp, con il BTP a 3,87%.
Bund a 2,46%.
Sale ancora il treasury USA, che si porta ad un rendimento del 4,57%.
In ulteriore apprezzamento il $, con €/$ a 1,0683.
Bitcoin sempre nella forbice $ 70/71.000 (70.836, + 1,16%).
Ps: si è chiuso ieri, in Vietnam, il processo a Truong My Lan, una dele persone più ricche del Paese. L’imprenditrice è stata condannata a morte perché ritenuta colpevole della frode più gigantesca mai vista in quel Paese. Secondo l’accusa, infatti, avrebbe sottratto, sotto forma di prestiti, senza mai restituire nulla, il controvalore di ben € 25 MD alla Saigon Commercial Bank, che lei, attraverso prestanome e società di comodo, controllava, si stima, al 90%, quando la legge impone un limite del 5%. La cifra diventa ancora più sbalorditiva se la si raffronta al PIL vietnamita: infatti è l’equivalente del 3% della ricchezza del Paese. Un po’ come se da noi un privato ricevesse finanziamenti, da un singolo Istituto, di circa € 60/65 MD.