Un colpo al cerchio e un colpo alla botte.
In questo modo si potrebbero sintetizzare la decisione della FED e le parole del suo presidente Jerome Powell.
Le attese, si sa, erano per un rialzo dello 0,50%: l’andamento dell’inflazione, calata al 7,1% a novembre, permette, infatti, alla Banca Centrale americana un atteggiamento più morbido rispetto agli ultimi “scatti in avanti”. Una progressione, comunque, che non ha pari nella storia americana: con quello di ieri, ormai sono già 7 i rialzi dal mese di marzo. In 10 mesi siamo passati dallo 0-0,25% al 4.25/4.50%, il livello più alto dal 2007. Questo il “colpo al cerchio”, che va incontro a chi sperava ad un abbassamento della guardia.
Ma abbiamo anche un “colpo alla botte”, quasi a dare voce a chi, anche all’interno della FED americana (e non sono pochi), è fautore una politica rigorista che non deve dare segnali di cedimento. Ecco, quindi, che Powell ci dice che quanto fatto sino ad ora non è sufficiente e che servono altre riprove che i prezzi sono sotto controllo, come dimostrano valori ben superiori al “target” del 2%. Motivo per cui non solo avremo altri rialzi (di cui non è stata resa nota l’entità, dipendendo da quelle che saranno le prossime dinamiche sui prezzi, anche se si pensa che potrebbero essere nell’ordine anche dello 0,25%), probabilmente nel primo trimestre 23, con il livello finale che potrebbe portarsi tra il 5 e il 5,25%, ma che passerà del tempo (probabilmente quasi tutto il 2023) prima che la rotta si inverta e si torni a politiche espansive. Vero è che cominciano ad intravedersi segnali di raffreddamento del mercato immobiliare e che i tassi più alti frenano gli investimenti, ma il mercato del lavoro, uno degli indicatori più seguiti per la sua forte valenza “inflazionistica”, rimane vicino ai massimi, con un livello di disoccupazione pari al 3,7%, con un tendenziale al 4%. Ancora una volta, quindi, non viene sciolto il dilemma tra una chiara politica rigorista, che se da una parte porterebbe più rapidamente i prezzi verso i valori sperati, dall’altra potrebbe essere causa di una recessione che metterebbe in ginocchio le economie di molti Paesi, e una più espansiva, che avrebbe nel breve un effetto “crescita”, ma che porterebbe più avanti a situazioni ben più gravi. Si naviga, quindi, a vista, pronti al cambio di rotta nel momento in cui i segnali fossero più evidenti. Ad oggi, secondo la FED, la crescita americana dovrebbe essere, per il 2023, dello 0,5% (viene esclusa una recessione dura, passando al massimo attraverso una recessione “tecnica”), con una disoccupazione che, a fine 2023, del 4,6%. L’inflazione dovrebbe rimanere superiore al 3%, per poi assestarsi al 2,1% entro il 2025. Secondo Powell la “stabilità dei prezzi è il fondamento dell’economia: senza, è impossibile avere forti condizioni del mercato del lavoro per lungo tempo”. Per, in sintesi, sarebbe prematuro fermarsi ora, pur nella consapevolezza che gli interventi della FED saranno causa di una crescita più lenta e renderanno più debole il mercato del lavoro. Ma quella rimane la strada obbligata.
Wall Street ha reagito con molta cautela alle parole di Powell, virando in negativo, anche se sul finale di seduta ha parzialmente recuperato terreno. Le chiusure sono state comunque negative, con il Nasdaq a – 0,79%, Dow Jones – 0,42%, S&P 500 – 0,61%.
Mercati asiatici allineati alle chiusure USA: Nikkei – 0,37%, Shanghai – 0,25%, Hong Kong – 1,48%. A pesare sui listini great China anche i dati macro provenienti dal colosso asiatico, che indicano un’attività che procede ancora a rilento a causa delle continue chiusure.
Futures negativi un po’ su tutte le piazze, a lasciar presagire aperture deboli delle contrattazioni.
Petrolio in leggero calo questa mattina, con il WTI a $ 76,59 – 1.09%.
Gas naturale Usa a $ 6,460, + 0,44%.
Tiene quota $ 1.800 (1.803) l’oro, per quanto in calo dello 0,93%.
Spread in leggera risalita, a 191 bp, con il BTP che si riaffaccia oltre il 3,80%.
Treasury al 3,50%.
€/$ a 1,0659, con la moneta unica che continua il suo recupero.
Bitcoin a $ 17.726, – 0,44%.
Ps: hai voglia di parlare di inflazione. Ieri sono stati venduti all’asta negli Usa (e dove se no) un paio di jeans (forse di Levi’s) che facevano parte di un carico di una nave (la S.S. Central America) naufragata, a causa di un uragano, nel 1857 al largo della South Carolina. Il prezzo? $ 114.000. Che forse, appunto, sarebbe il prezzo dopo 165 anni di inflazione…