Continua a “tenere banco” il tentativo di “scalata” del Fondo americano KKR a Telecom TIM. Anche se, a dire il vero, assume sempre più le sembianze di un “tentativo di disturbo” più che di un vero e proprio tentativo di acquisizione: non è credibile, infatti, che un investitore finanziario qual è il gruppo americano non abbia messo in conto che lanciare un’OPA (Offerta Pubblica di Acquisto), che nel caso di TIM può arrivare al 100% del capitale, con successivo “delisting” del titolo, avrebbe creato sconquassi non solo a livello aziendale e di mercato, ma ancor di più sul fronte politico. Per ora il Governo sembra aver scelto la linea della “non ingerenza”, limitandosi ad affermare che non è compito dell’esecutivo esprimere pareri sul management, mentre dovrà valutare l’interesse pubblico nel momento in cui ci fosse l’ufficializzazione dell’operazione (ricordiamo che al momento non è stata formalizzata alcuna proposta).
Quello che emerge, intanto, è la frattura tra l’azionista di riferimento (la francese Vivendi, che controlla il 23,8% del capitale) e l’AD Gubitosi, accusato di non essere stato in grado di raggiungere gli obiettivi previsti dal Piano industriale. Senza contare il prezzo, ritenuto insufficiente rispetto all’effettivo valore del gruppo. Non per niente ieri il titolo, dopo il forte rialzo di lunedì, peraltro ben lontano dal prezzo teorico dell’offerta (€ 0,505), ieri ha perso il 4,7%, portandosi a € 0,43 dal 0,45 del giorno precedente. Se l’operazione andrà in porto, i tempi non saranno certo brevi e non mancheranno i “colpi di scena”. Intanto venerdì si riunirà un nuovo CdA e già quella potrebbe essere l’occasione per il maggior azionista di sfiduciare l’attuale Amministratore Delegato.
“L’elemento di disturbo” TIM non distrae più di tanto, comunque, Mario Draghi e l’esecutivo da lui presieduto: ieri, in un’audizione alla Commissione Bilancio di Camera e Senato, il Ministro dell’Economia Daniele Franco ha ribadito ancora una volta che l’anno che sta per chiudersi dovrebbe vedere il PIL crescere del 6,3%. Questo permetterebbe una discesa accelerata del nostro debito, che dovrebbe portarsi, l’anno prossimo, al 153,5% dall’attuale 155,6%, meglio di quanto previsto nel Documento di Economia e Finanza (DEF) presentato a settembre.
Allargando ancor più lo sguardo, siamo di fronte ad una svolta epocale (anche se certamente transitoria) sul tema delle forniture petrolifere. Come anticipato ieri, infatti, gli USA, detentori delle maggiori riserve “strategiche” al mondo, sono riusciti a convincere altri Paesi, a partire da Cina, India, Giappone e Regno Unito, a “rilasciare”, insieme a loro, una parte delle riserve. Il loro utilizzo è solitamente dettato da situazioni particolarmente gravi, come guerre, inondazioni, disastri climatici: è quindi la prima volta che un gruppo di Paesi “rilascia” riserve strategiche (SPR, Strategic Petroleum Reserve) al di fuori della regia dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE). L’obiettivo evidente è di abbassare la tensione sui prezzi, che nelle settimane scorso avevano toccato livelli mai raggiunti negli ultimi anni, vista la rigidità dell’Opec + di andare incontro alla richiesta di rivedere i livelli produttivi in essere. Per il momento, però, invece che ad un ribasso, abbiamo assistito ad un rialzo del prezzo, con il WTI che si è riportato verso $ 80. Reazione dovuta al fatto che gli analisti si aspettano, a questo punto, che l’Opec possa ulteriormente “chiudere” i rubinetti, abbassando la produzione in risposta all’utilizzo delle Riserve Strategiche. Si prefigura quindi una fase di “belligeranza”, soprattutto tra USA e Opec +: il Presidente Biden, in crisi di consensi, che hanno toccato il livello minimo dalla sua elezione (gli americani lo ritengono responsabile del rialzo dell’inflazione e quindi della riduzione dei loro redditi), ha infatti dichiarato che farà tutto ciò che è in suo potere per abbattere il costo del carburante, mai così alto negli Stati Uniti.
Nel giorno della sua riapertura dopo la festività di ieri, il Nikkei perde oltre l’1,5%. Meglio va a Shanghai, in leggero rialzo, e a Hong Kong, che sale dello 0,60%. Bene anche Singapore, a + 0,20%.
Si muovono al rialzo i futures sulle due sponde dell’oceano, in recupero dopo i ribassi di ieri.
Tutte in rialzo le materie prime: il petrolio (WTI) continua la sua risalita, facendo segnare una crescita dello 0,24% a $ 78,78. Gas naturale di nuovo sopra i $ 5 (+ 0,4%).
Oro che dopo la “scoppola” di ieri, che ha riportato il prezzo sotto i $ 1.800, cerca un recupero e “rivede” i $ 1.800 (1.796).
Spread a 127 bp, con il BTP che torna a soffrire, con il rendimento che supera di nuovo l’1%. Non va meglio al Treasury: il decennale balza all’1,67% da 1,64% (lunedì era a 1,56%).
Chi ne trae beneficio è il $ che continua la sua “marcia”, con l’€/$ a 1,124: da inizio anno la rivalutazione del “biglietto verde” oramai ha raggiunto l’8,5%.
“Anonimo” sempre il bitcoin, le cui quotazioni non si spostano da $ 56.000.
Ps: ricorre oggi il 30° anniversario della scomparsa di Freddie Mercury, il leader dei Queen, uno dei più grandi cantanti rock di sempre. E, come quasi sempre succede, il ricordo, con il tempo, aiuta a creare il mito. Come per John Lennon, Kurt Cobain, Janis Joplin, e tanti altri.