Nel 2025, l’Unione Europea si trova a un bivio cruciale riguardo alla sua dipendenza dalle materie prime critiche. La Commissione Europea, sotto la presidenza di Ursula von der Leyen, ha evidenziato la necessità di garantire forniture più autonome di minerali e metalli, essenziali per la transizione ecologica e per la difesa. Tuttavia, la dipendenza dall’estero, in particolare dalla Cina e dalla Turchia, solleva interrogativi sulla sostenibilità e sull’impatto ambientale delle estrazioni minerarie.
Attualmente, i 27 Stati membri dell’Unione Europea mostrano una forte dipendenza da alcuni Paesi per le materie prime critiche. Ad esempio, la Cina fornisce il 100% degli elementi delle terre rare pesanti, mentre la Turchia copre il 98% del fabbisogno di boro. Il Sud Africa, invece, soddisfa il 71% della domanda di platino. Queste statistiche evidenziano la vulnerabilità dell’Unione rispetto a eventuali interruzioni nelle forniture. Le proiezioni della Commissione Europea indicano che la richiesta di alluminio potrebbe aumentare drasticamente, passando dalle 32mila tonnellate annue del 2020 a 206mila tonnellate nel 2050. Tuttavia, tali previsioni non hanno tenuto conto del recente piano RearmEU, che prevede investimenti significativi nella difesa.
Il 2024 ha segnato l’entrata in vigore del Critical Raw Materials Act, un regolamento che si propone di garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile delle materie prime critiche. Questo atto legislativo stabilisce obiettivi ambiziosi per il 2030: almeno il 10% del consumo annuo deve provenire da estrazioni interne all’Unione, il 40% dalla trasformazione e il 25% dal riciclaggio. Inoltre, non più del 65% del consumo di ciascuna materia prima critica può provenire da un singolo Paese terzo. Tuttavia, la realizzazione di questi obiettivi risulta complessa, data la scarsità di una filiera ben strutturata e le tempistiche ristrette.
L’aspirazione dell’Unione a una maggiore autonomia si scontra con l’inevitabile ritorno delle attività estrattive, che sollevano preoccupazioni ambientali. Le recenti proteste in Serbia contro la multinazionale Rio Tinto, che intende aprire una grande miniera di litio, sono emblematiche di un crescente malcontento tra le popolazioni locali. L’ex commissario Thierry Breton ha sottolineato che le risorse disponibili in Europa non coprono nemmeno la metà delle 34 materie prime critiche identificate, suggerendo che la cooperazione internazionale potrebbe essere una via da perseguire. I partenariati strategici con Paesi terzi potrebbero offrire una soluzione, ma la vera risposta a lungo termine sembra risiedere nell’economia circolare.
Il riciclaggio rappresenta un’opportunità significativa per ridurre la domanda di nuove materie prime. L’idea delle “miniere urbane” si fa strada, specialmente con i rifiuti elettronici, che già dispongono di una filiera strutturata. Tuttavia, è fondamentale potenziare la raccolta e il riutilizzo degli oggetti quotidiani, come smartphone e computer, per massimizzare il recupero delle materie critiche. L’Italia, in particolare, ha tardato a sviluppare una politica adeguata in questo ambito, evidenziando la necessità di un cambiamento.
Il governo italiano, guidato da Giorgia Meloni, ha mostrato una spinta verso l’autorizzazione delle estrazioni minerarie, incluse quelle sui fondali marini. Un’indagine di Greenpeace Italia ha rivelato che, in assenza di una normativa internazionale, solo la Norvegia ha avviato attività di deep sea mining in Europa. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, è tra i più attivi nel promuovere queste iniziative. Tuttavia, finora, l’unico provvedimento concreto adottato è la legge n°115 del 2024, che recepisce il regolamento europeo sulle materie prime critiche, senza menzionare l’economia circolare o le miniere urbane. Questo approccio rischia di non affrontare le sfide ambientali e sostenibili legate all’industria estrattiva.
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