Direttore: Alessandro Plateroti

La cosa forse più difficile, in situazioni in cui tutto sembra precipitare, è mantenere la lucidità: non farsi prendere dal panico, anche quando gli scenari si fanno drammatici, quasi sempre permette di limitare i danni, se non addirittura, nel medio periodo, trarre benefici.

Può aiutare, in questo senso, guardare cosa è successo al verificarsi di conflitti bellici che hanno coinvolto, come in questo caso, più o meno direttamente, le potenze mondiali.

L’attacco del Giappone a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, portò la borsa americana a perdere, nei 3 mesi successivi, circa il 25%, valori che recuperò in tempi rapidi a partire dalla primavera successiva.

Il conflitto coreano dei primi anni 50, che coinvolse Usa, Unione Sovietica e Cina, e quindi potenzialmente gravissimo, portò Wall Street ad una caduta iniziale del 15%, che fu completamente riassorbita in poco tempo, per poi, nei 3 anni di guerra, avere un andamento più che positivo.

Ancora meglio andò nel 1962, ai tempi della crisi di Cuba: sebbene in quei giorni il mondo fosse andato vicino ad un conflitto nucleare, la borsa americana limitò le perdite al 5%, per poi riprende il cammino.

Anche la Guerra del Golfo del 1991 rispecchiò questo approccio: scivolone iniziale e poi recupero.

E durante la Guerra del Vietnam, forse quella che è costata più cara agli Stati Uniti, e in termini economici che di “immagine”, Wall Street salì di oltre il 20,5% (e si era in una fase economica certamente non semplice).

Fare confronti è sempre arduo, anche perché cambiano i contesti e i “protagonisti”, oltre che i cicli economici.

Venendo al conflitto ucraino, quello che emerge, e che forse è l’elemento di maggior distinguo rispetto ad altri (anche se sotto certi aspetti anche la Guerra del Golfo ebbe implicazioni simili), è la forte dipendenza di un’area geografica (l’Europa) dalle forniture energetiche e di materie prime dal Paese che sta provocando il conflitto e che, giustamente, viene messo al bando dalla Comunità internazionale. Le durissime sanzioni, però, almeno per il momento sembrano non contemplare il blocco delle forniture di gas e petrolio o di altri prodotti (grano, mais, metalli preziosi).

Un aspetto dalle molteplici valenze.

Se i “rubinetti rimanessero aperti”, sotto certi aspetti, è come se l’Europa (e gli Stati Uniti) “finanziassero” la guerra a Putin. Ogni giorno, il colosso sovietico esporta 3,5ML di barili di petrolio e 275ML di m3 di gas all’Europa, per un controvalore di circa $ 700ML al giorno. Senza contare che ogni aumento dei prezzi porta ulteriori montagne di $ nelle casse del Paese. Non che ne abbia bisogno, peraltro: si calcola che le riserve monetarie della Russia ammontino a circa $ 630 MD (in parte investiti in Treasury americani….), di cui circa $ 150MD in oro (è il quinto detentore al mondo). Nel 2014, all’epoca della Guerra in Crimea, le riserve erano “solo” di $ 300MD: sono più che raddoppiate, quindi, in pochi anni grazie, appunto, all’Europa…

Si può ben comprendere, pertanto, e questo è forse ciò che preoccupa di più, il timore che le sanzioni vadano a colpire più che il destinatario delle misure chi con lui intrattiene rapporti d’affari. E che più dure esse siano, maggiori possano essere i danni per le economie che intrattengono legami con la Russia.

Certamente l’isolamento politico di Putin, a lungo andare, potrebbe “tagliare le gambe” al gigante russo, impedendo qualsiasi attività economica e transazione finanziaria con il resto del mondo (anche se, per ora, la Cina è rimasta quasi “silente”). Rimane peraltro la domanda se il resto del mondo sarà in grado di “riorganizzare” la propria attività economica, già alle prese con le note problematiche, in tempi brevi senza che ci siano ricadute pesanti sulla ripresa e sui conti pubblici dei vari Stati (questa è una delle ragioni per cui, al momento, Biden avrebbe deciso di mantenere aperte le forniture vso l’Europa, con l’obiettivo di non provocare un nuovo shock dei prezzi energetici, un macigno che già sta pesando in maniera determinante sul ciclo economico).

Dopo il prevedibile ko dei mercati europei di ieri mattina, Wall Street, che ha aperto le trattazioni nell’incertezza più totale, ha chiuso la seduta con rialzi quasi clamorosi: il Nasdaq è cresciuto del 3,44% (aveva aperto a – 3%…), lo S&P + 1,5%, il Dow + 0,28%. Questa notte le borse del Far East si sono “accodate”, con il Nikkei a + 1,95%, Shanghai + 0,63%, Kospi Seul + 1,06%. Soffre invece un pochino Hong Kong, in calo dello 0,5%.

Da segnalare che nella notte la Banca Centrale cinese ha immesso sul mercato oltre 290MD di yuan (equivalenti a $ 45,8MD) per sostenere l’economia.

Futures USA al momento in calo, mentre dovrebbero aprire al rialzo le borse europee.

Petrolio (WTI) a $ 94,9, dopo che ieri era arrivato a sfiorare i $ 100.

In calo il gas naturale, a $ 4,587 (- 1,31%). Ieri, peraltro, il megawattore è rimbalzato di oltre il 53%, portandosi a € 136.

Ripiega l’oro, che troviamo a $ 1.916 (- 0,6%).

Sorte analoga per il $, con €/$ a 1,1214.

Spread a 166 bp: ieri, dopo aver toccato i 175 bp, è sceso sin verso i 163bp. Rendimento del BTP intorno a 1,85%.

Treasury USA a 1,95%.

“Respira” il bitcoin: questa mattina sale dell’8% circa, a $ 38.500.

Ps: il calendario ci porta a festeggiare un grande dello sport italiano (anche se, in realtà, come ieri per Oliviero Toscani, la “scadenza” vera sarebbe il 28 febbraio). Dino Zoff compie 80 anni. Memorabile, oltre che la sua carriera, la partita a carte con Pertini, Bearzot e Causio, con la Coppa del mondo sul tavolino, sull’aereo che riportava la squadra azzurra in Italia dopo il trionfo di Madrid. Lui si un vero “hombre vertical”.

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ultimo aggiornamento: 25-02-2022


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