La crisi energetica di questi mesi ci riporta con la memoria agli anni 70, un altro periodo non semplice, come molti ricorderanno. L’aumento del petrolio arrivò a modificare alcune abitudini di vita, con l’introduzione delle “domeniche ecologiche” (i genitori di Greta Tunberg erano appena nati….).
Peraltro quella fu soltanto una delle conseguenze, anche se, con tutta probabilità, quella che maggiormente ricordiamo. L’inflazione, in quegli anni, “galoppava” a ritmi piuttosto elevati: in 10 anni, tra il 1969 e il 1979, infatti, si calcola che il potere di acquisto della liquidità ferma sui cc arrivò a perdere il 26,33% contro una crescita dell’indice azionario MSCI World del 20%.
Oggi, limitandosi al nostro Paese, la liquidità presente sui cc si calcola si aggiri intorno a € 1.900 MD, anche grazie al fortissimo incremento degli ultimi 2 anni. Facendo un’analogia con quel periodo, se è vero che l’inflazione si aggira intorno al 3%, a fronte di rendimenti “flat” sui depositi (se non, in alcuni casi, addirittura negativi), ciò significa che limitando lo sguardo al 2022 la perdita del potere di acquisto sarebbe pari a ben € 55 MD. Se le condizioni dovessero rimanere invariate per i prossimi 10 anni, si arriverebbe alla cifra record di € 500MD.
Ovviamente, rispetto a quel periodo, le differenze sono notevoli.
Oggi i rendimenti, non solo reali, ma anche nominali, delle emissione pubbliche (limitandoci al ns debito pubblico) hanno rendimenti negativi: 40 o 50 anni fa, i rendimenti “facciali” erano, in alcuni casi, a 2 cifre. Oggi, a malapena si arriva all’1% per le emissioni a 10 anni. Una differenza abissale: all’epoca i rendimenti elevati davano una sorta di “illusione” di “portare a casa” buoni rendimenti, in realtà annullati dall’elevata inflazione. Oggi nessuno si illude: con rendimenti “a breve” (per non parlare di quelli “a vista”) negativi, la perdita di valore è sotto gli occhi di tutti.
Ma questa è solo una delle diversità.
Oggi, come tutti sappiamo, i mercati sono inondati di liquidità, cosa che ha fatto aumentare a dismisura il debito di famiglie e imprese: elemento, questo, che rende molto maggiore l’impatto che l’aumento del costo del denaro può avere sull’equilibrio finanziario. Dall’altra, in questi anni i mercati finanziari hanno continuato a salire a ritmi vertiginosi, raggiungendo quotazioni in alcuni casi piuttosto elevate, non “supportate” da “numeri” aziendali adeguati. Se guardiamo al mercato americano, uno dei più esuberanti, notiamo che oggi l’esposizione sul mercato azionario delle famiglie è ai massimi, con il 45,7% degli americani che ha investito in titoli azionari. Al di là della “voglia di scommesse” tipica dei cittadini americani, un forte contributo l’hanno dato i tassi a zero, che hanno favorito l’ulteriore indebitamento (il cosi detto “margin debt”) per comprare “attività finanziarie”, che oggi è ai massimi. Mentre, invece, è ai minimi “l’earning yield”, vale a dire il rapporto tra rapporto tra utili e prezzo delle azioni: il che non significa che gli utili azionari non siano cresciuti in quest’ultimo anno, ma conferma come il valore dei titoli azionari sia cresciuto molto di più.
Normale, quindi, che la svolta impressa, la settimana scorsa, da molte banche centrali sulle loro politiche monetarie possa portare ad un approccio diverso da parte degli investitori. Va comunque evidenziato che, guardando alle ultime 4 tornate di rialzi da parte della FED (1994, 1999, 2004, 2015), Wall Street ha sempre reagito positivamente. Il ragionamento è che se i tassi rialzano, ciò significa che le economie “funzionano”, facendo salire il valore delle aziende. Ecco perché alcune banche d’affari continuano, seppur con maggior cautela e invitando gli investitori alla prudenza, ancora spazi di crescita, soprattutto sino a quando i tassi reali continueranno ad avere rendimenti così negativi (oggi, in molti casi, siamo ai minimi di sempre). Senza contare la maggior “solidità” del sistema finanziario, “temprato” dalla crisi del 2008/2009. Nonché dalla volontà delle Banche Centrale di non causare nuovi “schock” dei mercati. Ma, ora più che mai, serve cautela.
Inizio settimana con i mercati in balia della “variante omicron”. Le borse asiatiche cadono, mediamente, del 2% (Nikkei – 2,13%, Hang Seng – 2%, Shanghai – 1%), con i futures tutti in calo tra l’1,5% e il 2%.
In Europa molti Paesi stanno adottando nuovamente misure molto drastiche, con l’Olanda che ha introdotto il lockdown duro e la Danimarca che ha chiuso cinema, teatri, parchi divertimenti e imponendo il coprifuoco alla 23.00. In USA, molte partite del campionato NBA sono state sospese, mentre a New York si calcola che i contagi siano triplicati in un mese. Non va meglio nel Regno Unito, dove ormai i contagi superano gli 80.000 casi (30.000 nella sola Londra).
In forte calo il petrolio, con il WTI che cede il 4% (€ 67,95).
Sale invece il gas naturale, a $ 3.735 (+ 1%).
Oro che “tiene” i $ 1.800 (- 0,33%).
Pressione sullo spread, che supera i 141 bp, con il rendimento del BTP oltre l’1%.
In rafforzamento il treasury, che questa mattina offre un rendimento dell’1,36% (- 3 bp dall’1.39% di venerdì).
$ di nuovo in salita, con €/$ a 1.125.
Bitcoin a $ 46.500, – 2,25%.
Ps: oggi primo giorno di quotazione, a Wall Street, per uno dei marchi storici del lusso italiano. Con un’IPO, infatti, Ermenegildo Zegna apre le porte al “mercato”. L’enterprise value è pari a $ 3.1MD, con una capitalizzazione pari a $ 2.4MD, con oltre 500 negozi sparsi nel mondo, di cui 284 gestiti direttamente, con ricavi (2019) per $ 1.3 MD. Per quanto arrivi in un periodo non semplice, la conferma di come l’Italia, come ha dichiarato ancora ieri Ursula von der Leyen, inaugurando l’anno accademico all’Università Cattolica, sia oggi un esempio per molti governi.