Oggi potrebbe essere l’ultimo giorno del Governo Draghi, in carica dal 13 febbraio 2021.
Altri Paesi (vedi Gran Bretagna e Israele, mentre in Giappone si sono svolte domenica le elezioni per il rinnovo del Parlamento) stanno vivendo, pur nella drammaticità della situazione a causa di una guerra che sembra non voler finire (oramai siamo arrivati a 140 giorni dall’inizio del conflitto e non si vedono spiragli per trattative che portino alla pace) e di livelli di inflazione che non si vedevano da 40 anni, che ogni giorno di più, oltre a limare i salari, minano la crescita e la pace sociale.
Difficile entrare nei ragionamenti di alcuni leader politici: probabilmente il pensiero dominante è che comunque, tempo 7/8 mesi, si andrebbe a votare. Tanto vale “staccare la spina” qualche mese prima senza farsi carico di una legge finanziaria che, vista, appunto, l’attuale situazione economica, e ancor di più quella che ci spetterà nei prossimi mesi, non sarà certo facile e dovrà prevedere una nuova dimostrazione di attenzione se non rigore nei conti.
Peccato che l’Italia non sia la Gran Bretagna, o Israele, o il Giappone.
La nostra stabilità finanziaria, più di altre economie, dipende dagli aiuti che dobbiamo ancora ricevere dalla UE, che passano dal PNRR, la cui attuazione non è ancora ultimata e che prevede precisi impegni e scadenze. Draghi, grazie al prestigio, all’autorevolezza e alla credibilità a livello internazionale senza dubbio è la migliore figura che il nostro Paese possa esprimere ed, a detta di tutti, una sorta di polizza. La sua uscita di scena potrebbe, quindi, far tornare l’Italia a quello che l’Avv. Agnelli, in una delle sue battute forse più note, definì il “Paese dei fichi d’India”. Nella ormai obsoleta prima Repubblica il periodo estivo era noto anche per le famose “crisi balneari”, che venivano spesso viste come l’occasione per un “rimpasto” del Governo, considerato che andare a votare, visto il periodo, era inimmaginabile. Ma questa volta a capo dell’esecutivo c’è una persona che non fa della politica la sua attività prevalente ed è poco disposto a scendere a compromessi sempre più rivolti verso il basso.
Tutto questo mentre si susseguono dati che lasciano poco spazio alla fantasia.
L’inflazione USA a giugno è arrivata al 9,1%, ben oltre l’atteso 8,8% (già superiore all’8,6% fatto registrare a maggio).
Sia Biden (preoccupato per la sempre più vicina scadenza elettorale di metà mandato a novembre, che lo vedono perdente) e, ancor di più, Powell si sono affrettati a dichiarare che i dati sono superati, in quanto fanno riferimento a 14 giorni fa: da un paio di settimane, se non di più, i prezzi della benzina, forse il maggior “contributore” (in 1 mese è aumentata di oltre l’11%, negli ultimi 12 mesi di oltre il 59,9%), sono in discesa, come pure quelli del gas. Sorte analoga per i biglietti aerei, che, dopo i rialzi dei mesi scorsi, sembrerebbero aver invertito la rotta.
Fatto sta che molti analisti che la FED nel prossimo vertice già calendarizzato per il 26 e il 27 luglio possa aumentare i tassi non dello 0,75% ma addirittura dell’1% (così almeno pensa il 42% degli intervistati, anche se l’ipotesi ritenuta più probabile – 58% degli intervistati – rimane un rialzo dello 0,75%).
Leggermente migliori i dati sull’inflazione core, al netto, cioè, di energia e prodotti alimentari: rispetto al 6% rilevato a maggio, a fine giugno era al 5,9%, dato sempre elevato, ma che potrebbe dar ragione al Presidente della FED.
La recessione, peraltro, viene considerata sempre più concreta. Così, almeno, a leggere i mercati: ieri, per esempio, il rendimento del treasury a 2 anni ha toccato il 3,20%, ben oltre il 2,95% del titolo a 10 anni. Un fenomeno quello dell’inversione della curva ritenuto da molti come il principale indicatore di una crisi economica in arrivo: con la crisi, gli utili aziendali diminuiscono (o addirittura spariscono), rendendo meno performanti i dividendi distribuiti dai titoli azionari. Di conseguenza, oltre al ritorno dell’avversione al rischio, gli investitori tornare a considerare più interessanti, nel breve termine, i ritorni di un investimento “difensivo” come quello nei governativi americani, mentre a lungo termine si torneranno a privilegiare quelli in azioni.
Mercati asiatici sempre piuttosto volatili: si appresta a chiudere in territorio positivo il Nikkei, + 0,62%. Non altrettanto Shanghai (al momento – 0,22%) e Hong Kong (- 0,67%).
Girano in negativo i futures, comunque con percentuali entro il – 0,5%. Fa eccezione Milano: la probabile crisi politica fa sentire il suo peso, con una previsione di apertura degli scambi oltre il – 1%.
In ribasso, seppur modesto, le materie prime: petrolio (WTI) a $ 96,05 (- 0,36%), gas naturale USA $ 6,668 (- 0,49%).
Oro sempre in area $ 1.721 (- 0,80%).
Soffre, come ovvio, lo spread, che questa mattina si porta a 216 bp.
Il tutto mentre continua invece a scendere il rendimento del bund tedesco, ieri a 1,14%: non più tardi di 20 giorni fa era all’1,75%. Tradotto, significa che il rendimento del ns BTP, mentre quelli di altri governativi scendono, torna a salire: siamo, questa mattina, al 3,30%.
Si “placa”, almeno per il momento, la corsa del $: dopo che ieri, per alcuni momenti, era sceso sotto la parità vso €, questa mattina fa segnare 1,002 (ma ieri sera era arrivato anche a 1.008).
Segnali di ripresa del bitcoin: questa mattina si porta ad un passo dei $ 20.000 (19.978), + 2,38%.
Ps: si conferma caotica la situazione negli aeroporti di mezzo mondo. Lo scalo londinese di Heatrow (circa 80ML di passeggeri all’anno), per cercare di arginare i disagi, ha imposto alle Compagnie aeree di contingentare la vendita dei biglietti aerei, fermandoli a 100.000 al giorno (quelli programmati, in questi giorni, erano circa 104.000: il rischio è, quindi, che qualche migliaio di persone rimanga, nei prossimi giorni, a terra). Solo British Airways prevede di cancellare, entro ottobre 2022, circa 30.000 voli. E, secondo il CEO dello scalo londinese, John Holland Kye, ci vorranno circa 18 mesi per riportarlo alla normalità.