Anche se se ne parla da mesi, il “romanzo” sull’inflazione è ancora agli inizi. Da sempre è tra i protagonisti degli scenari economici, spesso dominatrice assoluta, sia quando, come in questi mesi, la sua crescita rischia di “tagliare le gambe” alle crescita, sia quando, come fino a poco tempo fa, era la sua assenza a preoccupare. Viene in mente uno dei primi film di Nanni Moretti, il surreale (ma non troppo) Ecce Bombo, quando il protagonista, Michele Apicella, invitato ad una festa, indeciso sul da farsi, tergiversa al telefono, passando nell’arco di pochi secondi da una decisione all’altra, sino alla memorabile “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”.
L’inflazione negativa è una delle maggiori preoccupazioni per Governi, Banche Centrali, Autorità monetarie, e l’economia in genere: il pensiero che i prezzi possa scendere porta le persone a spostare gli acquisti in avanti, rinviando quindi i consumi, riducendo la domanda e portando alla stagflazione. Da qui gli stimoli monetari di questi anni, con “fiumi di liquidità” immessi sui mercati, al fine di permettere di ricreare le migliori condizioni per fare ripartire l’economia.
Al contrario, la sua crescita oltre i “livelli di guardia” porta a “drenare” la massa monetaria: il rischio è che la presenza degli aiuti in concomitanza di maggiori consumi porti l’economia al surriscaldamento e che la situazione sfugga completamente di mano.
Va detto, peraltro, che l’inflazione può essere distinta tra “inflazione da offerta” piuttosto che “inflazione da domanda”: in questi mesi ci siamo trovati di fronte al primo caso, a causa, come noto, dell’eccezionale aumento delle materie prime e delle difficoltà dovute alla logistica. Ora, però, si sta passando al secondo, con il “trasferimento” delle cause all’aumento dei consumi e, vero campanello d’allarme, si iniziano a vedere aumenti dei salari.
Oltre che sulle abitudini di vita, l’inflazione molto spesso (per non dire sempre)condiziona le scelte di investimento dei risparmiatori.
La sua assenza, come detto, provoca tassi bassi, che determinano rendimenti pressochè nulli di molti asset (basti pensare alle obbligazioni, sia governative che corporate) , se non addirittura negativi. In alcuni momenti, peraltro, non è detto che anche in presenza di un’inflazione a “livelli di guardia”, come in questo momento, i rendimenti diventino per forza di cosa positivi. Né bisogna farsi ingannare da tassi nominali positivi: alla fine, quelli reali (quelli “depurati” dall’inflazione) sono molto spesso ancora negativi: ne abbiamo conferma guardando il treasury americano, negli ultimi mesi mediamente sopra l’1,50%, con punte all’1.80%, ma che alla fine ha un rendimento negativo intorno all’1.45%, mai, storicamente, a questi livelli.
Questo è uno dei motivi per cui gli investitori continuano a privilegiare i mercati azionari, la cui crescita, anche quest’anno, ovunque (tranne Cina e Hong Kong) è a 2 cifre.
Il nostro indice MIB, per esempio, è cresciuto di oltre il 24%, preceduto, in Europa, solo dal Cac di Parigi. Ormai siamo ben oltre i 27.500 punti, ai massimi dal 2008. In realtà, questa valutazione non tiene conto di tutti i dividendi distribuiti in questi anni, con i quali saremmo già sopra i 40.000 punti, e quindi non lontano dal massimo di 50.108 punti toccato il 6 marzo 2000. Va detto che ci sono listini, quali il Dax di Francoforte che già normalmente “incorporano” i dividendi, non distinguendo tra prezzi dei titoli e dividendi: un rendimento pertanto total return, con l’obiettivo di rispecchiare l’andamento dei ricavi nella sua totalità.
Nonostante le performance sopra indicate, il nostro listino (MIB) appare ancora oggi tra i più “vantaggiosi”. Se guardiamo al rapporto prezzo/utile (p/e), uno degli indicatori più usati dagli analisti, vedremo che siamo a 11,6, il più basso in assoluto tra i mercati sviluppati: quello che si “avvicina” di più è il Dax, a 14,4, mentre il Cac è a 15,3. La media europea, rappresentata dall’Eurostoxx 600, è a 15,8. Ma se ci spostiamo fuori dai confini europei, noteremo che lo S&P si trova a 20,7, mentre il Nasdaq addirittura a 29,9. Il Nikkei is ferma al 16,8, mentre la Cina non supera il 13,3. Numeri che lasciano pensare che la crescita dei listini non sia ancora finita, anche se diversi, come ormai sappiamo, possono essere i pericoli: interventi troppo decisi e rapidi (anche se tutto lascia pensare che ci sia molta precauzione su questo argomento) da parte della autorità centrali, con drastica riduzione della liquidità, ulteriore diminuzione dei ritmi di crescita da parte della Cina (e degli USA) e un aumento degli spread che diminuirebbe il differenziale di rendimento tra i bond e gli indici di borsa.
La settimana si apre con i mercati asiatici per lo più in crescita. Nikkei a + 0,56%, Seul oltre l’1%. Sulla parità Hong Kong, mentre Shanghai è in lieve calo (– 0,16%), con la Banca Centrale che nella notte ha immesso liquidità sul mercato per un controvalore di Us$ 157 MD.
Futures ovunque poco mossi.
Petrolio in leggero calo, con il WTI a – 0,70% ($ 80,23).
Gas naturale in moderata crescita (+ 0,35%), a $ 4.816.
Scende marginalmente l’oro, sempre ai massimi di periodo ($ 1.861).
Spread che riparte da 120 bp, dopo l’impennata di venerdì, con il rendimento del BTP intorno all’1%.
Treasury a 1.55%.
€/$ stabile, a 1.145.
Bitcoin in ripresa (65.568, + 1,18%), dopo un fine settimana “dormiente”.
Ps: si è concluso ieri il convegno COP26 di Glasgow, con risultati, a detta di tutti (tranne che del Premier inglese, Boris Johnson…), sotto le attese, a causa, soprattutto, dei Paesi che producono i maggiori quantitativi di emissioni di C02 (Cina e India), in quanto maggiori utilizzatrici di energia prodotta dal carbone. Inquietante, sotto certi aspetti, la decisione dell’India: da oggi a New Delhi scatta il lockdown: e non in conseguenza del Covid, bensì per le polveri sottili, che sono causa di uno smog che rende l’aria irrespirabile. Delle 30 città più inquinate al mondo, ben 22 si trovano in India, dove si calcola muoiano, per cause legate all’inquinamento, ogni anno quasi 2 ML di persone.