Parliamo, ancora una volta, di clima. O meglio, di energia. Anche perché uno non può non prescindere dall’altra.
La conferenza di Glasgow, anche se difficilmente arriverà a soluzioni concrete (troppo grandi e complessi sono gli argomenti: si parla di futuro dell’umanità, di educazione e formazione degli individui, di stili di vita, di sviluppo, di equilibri (e disequilibri) sociali, di redistribuzione del reddito, di crescita economica, di controllo demografico, e tanto altro: già è difficilissimo trovare un accordo tra le grandi economie, con UE e USA da una parte, Cina, India e altre economie emergenti dall’altra, figuriamoci mettere d’accordo più di 200 Stati in pochi giorni), ha il merito di mettere in evidenza contraddizioni a tutti note, ma che facciamo finta di non vedere. E’ molto probabile (e più semplice) che si arrivi a ratificare un’intesa di massima che sposti “in avanti” la soluzione, con accordi programmatici che, da qui al momento della loro realizzazione, potranno essere rivisti e corretti.
L’energia è il motore della crescita e dello sviluppo: allo stesso tempo, è il maggior fattore di inquinamento.
Ci sono poi Paesi ricchissimi di energia (petrolio, gas naturale, carbone, per non parlare più in generale delle materie prime), che fanno quindi della sua esportazione la prima fonte di ricchezza. E ce se sono altri, invece, che ne sono praticamente privi, e quindi costretti a importarne quantitativi notevoli. Con un particolare: l’aumento del loro prezzo (quest’anno, come noto, quasi fuori controllo) può provocare shock inflazionistici che rischiano di mettere in ginocchio una ripresa ancora faticosa.
Prendiamo la UE.
Non più tardi di ieri, la Presidente von der Leyen ha ribadito ciò che tutti, bene o male, sappiamo: l’Europa dipende, per il 90% del gas che viene utilizzato, dall’import (Putin si sta fregando le mani….). Una situazione insostenibile, evidentemente. Né possiamo volgere lo sguardo al passato (neanche troppo lontano), con intere regioni europee (Belgio, Francia del Nord, Belgio) sommerse dai fumi di carbone. O chiedere all’Arabia Saudita e ai Paesi del Medio Oriente di continuare a pompare petrolio. Certo, esistono le rinnovabili: ma il percorso è ancora lungo, e i costi notevoli.
Ecco, quindi, che si torna a parlare di nucleare, un argomento che sino a pochi anni fa era ritenuto taboo e da evitare a tutti i costi (l’Italia aveva avviato la costruzione di alcune centrali nucleari, le più note a Caorso e Montalto, di fatto mai avviate e infine smantellate). E tutti abbiamo ben presente il disastro di Chernobyl, che ha sconvolto l’esistenza di milioni di persone.
E qui nasce, appunto, la contraddizione: vogliamo un mondo più pulito, ben sapendo che non possiamo rinunciare alla crescita. Che per essere realizzata ha bisogno di tanta, tantissima energia: quella che abbiamo (che, peraltro, prima o poi finirà) però inquina tantissimo, oltre al problema dei prezzi di cui si accennava più sopra, che rischia di mettere in ginocchio le economie di molti Paesi. Il fotovoltaico richiederebbe milioni di km2 di siti. L’eolico pale che emergono come funghi in mezzo al mare o sulle nostre montagne (e di venti continui simili alla bora triestina). Non rimangono molte alternative, con buona pace degli ambientalisti. Non a caso, nel suo intervento di qualche giorno fa, l’ex Presidente Obama (uno dei fautori dell’accordo sul clima di Parigi di qualche anno fa), ha sostanzialmente detto al movimento più attivo sul tema che va bene la protesta, ma servono anche proposte concrete.
Intanto ieri abbiamo visto cosa può succedere se vengono “aperti i rubinetti” sulle forniture: dopo che Gazprom (senz’altro su “invito” del Governo russo) ha avviato il ripristino delle scorte in alcuni siti di stoccaggio tra la Germania e la Polonia, il prezzo è crollato di oltre l’11%, scivolando a € 65 per megawattora. Fattore che gioca a favore di coloro che sostengono (Banche Centrali in testa) che ci troviamo di fronte ad un aumento “transitorio” dei prezzi, con l’inflazione che entro il primo semestre 2022 tornerà a livelli meno preoccupanti e più gestibili. Inflazione che, ricordiamolo ancora un volta, viaggia, in Europa, al 4,1%, mentre negli Usa è al 5,4% (ma oggi sono attesi i nuovi dati, con stime che la “vedono” al 5,9%). Va meglio per il nostro Paese, dove attualmente è al 3,1%.
Ancora una mattinata non semplice per le borse asiatiche, a seguito della debolezza mostrata in chiusura da Wall Street, con il Nasdaq in diminuzione dello 0,71%, trascinato dal crollo di Tesla (- 12%) dopo l’esito negativo (per Musk) del sondaggio che il fondatore della società aveva promosso tra i suoi seguaci su Twitter sul caso o meno di vendere una parte consistente del suo pacchetto di controllo per pagare le tasse (si stimano pari a $ 15MD…). Nikkei in calo dello 0,61%, Shanghai a – 0,41%. In controtendenza Hong Kong, che segna, al momento, + 0,64%.
Futures un po’ “disallineati”, in rialzo sulle piazze europee, mentre sono marginalmente negativi a New York.
Petrolio ancora una volta in crescita, con il WTI che si porta sopra $ 84 (84.47). in calo, invece, di nuovo, il gas naturale, che scende a $ 4,926.
Stabile l’oro, a $ 1.827.
Spread a 112,60, con il BTP ad un rendimento sempre in area 0,85%. Si rafforza anche il Treasury, con il rendimento sceso all’1,46%.
Continua a dare segnali di forza il $, con €/$ a 1.157.
Bitcoin che si prende un po’ di respiro, dopo i nuovi record: questa mattina è a $ 66.000, che è pur sempre un prezzo molto vicino al massimo di $ 68.500.
Ps: si continua sempre più a parlare (e a temere) di 4° ondata, con mezzo mondo alle prese con l’aumento dei contagi. Che hanno effetti ben diversi su chi si è vaccinato e chi no. Ecco perché è destinata a far discutere la decisione di Singapore: chi rifiuta di vaccinarsi, in caso di contagio e di necessità di assistenza, dovrà pagarsi le cure. Un messaggio forte: dal prossimo 8 dicembre, quindi, gli ospedali della città-stato non forniranno più assistenza gratuita a chi avrà contratto il virus e non risulterà immunizzato.