Con la fine della 2° guerra mondiale ovunque nel mondo iniziò una fase di crescita impetuosa dell’inflazione, fenomeno tipico al termine di conflitti lunghi e diffusi, che bloccano prima le attività produttive e poi i consumi. Che poi, se riflettiamo, è quello, né più né meno, che sta succedendo con il Covid-19.
Per difendere il potere di acquisto, falcidiato da livelli di inflazione in forte aumento, vennero introdotti meccanismi che permettevano di assorbire il rialzo dei prezzi, consentendo il recupero del potere di acquisto dei salari e degli stipendi, con modalità spesso diverse Paese per Paese.
Da noi prese il nome di scala mobile, un automatismo che permetteva l’adeguamento salariale, con modalità non sempre semplici da capire, alla crescita dell’inflazione. Un meccanismo che nel tempo divenne quasi “perverso”, tant’è che negli anni 80 iniziò la sua rivisitazione, fino a quando non si arrivò alla sua abolizione nel 1992. Complice la sostanziale scomparsa dell’inflazione, salvo qualche fiammata negli anni 90 e alla fine della prima decade degli anni 2000, in questi ultimi 30 anni non si è sentita la necessità (né è nata l’esigenza) di una “copertura” salariale: oggi non solo in Italia, ma ovunque nel mondo, è scomparsa qualsiasi forma di “tutela” che difenda il potere di acquisto dei lavoratori.
Si da il caso, però, che proprio in queste settimane qua e là se ne senta di nuovo parlare.
Il caso più clamoroso è quello dell’Ispo, il sindacato che riunisce i dipendenti della BCE (circa 4.000 e quasi tutti ubicati a Francoforte: elemento non secondario, visto che in Germania l’inflazione, secondo la Bundesbank, sta per toccare il 6%). La parte sociale ha rifiutato l’offerta di un aumento delle buste paga dell’1,3%, ritendendolo inadeguato alla situazione in atto e, soprattutto, alle prospettive future.
Si sta parlando, evidentemente, di un sindacato “competente”, rappresentando i lavoratori di una delle più importanti istituzioni finanziarie e monetarie al mondo: persone preparate e informate sulle vicende economiche e sulle dinamiche che le sovrintendono.
E’ evidente, quindi, una sorta di paradosso: da una parte abbiamo l’organizzazione per cui operano (presumibile che in molti casi si tratti di analisti, economisti, o comunque stretti conoscitori della materia) che continua a sostenere che il fenomeno del rialzo dei prezzi sarà transitorio e temporaneo (ancora ieri Christine Lagarde, al termine del Consiglio Direttivo, ha ribadito che la situazione dovrebbe rientrare in tempi relativamente brevi e che, di conseguenza, nessuna modifica al piano di stimoli in atto è al momento prevista, mentre è assolutamente fuori luogo parlare di un aumento dei tassi) e che non deve preoccupare (per quanto il livello di “attenzione” stia ogni giorno crescendo), dall’altra ci sono coloro che l’organizzazione la formano (e ne danno voce) che invece “invocano” il ripristino di forme di maggiore tutela, nel timore che gli aumenti, alla fine, non siano poi così “temporanei”.
E’ molto probabile che, al momento, nulla cambi sul tema “dell’ombrello salariale”. Ma il fatto stesso che se ne parli (e che a parlarne non sia, per esempio, il sindacato dei minatori della Rhur, con tutto il rispetto per quella forza sociale e per chi ne è rappresentato) è un segnale da non sottovalutare, essendo, di fatto, la conferma che ormai tutti abbiamo la consapevolezza che “l’inflazione è tornata” e con lei le preoccupazioni che si possano rivivere anni difficili quali quelli che abbiamo conosciuto con gli shock petroliferi degli anni 70 o, per quanto ci riguarda, quelli che hanno accompagnato l’esplosione del debito pubblico degli anni 80 e dei primi anni 90, che hanno, che molti di noi ricordano, alla manovra “monstre” del Governo Amato, nel 1992, da 100.000 miliardi di lire, la svalutazione della nostra moneta e, nottetempo, l’introduzione della patrimoniale.
Si preannuncia una giornata difficile per i mercati dopo l’annuncio della scoperta di una nuova variante del virus nell’area metropolitana di Johannesburg. Tutte le borse asiatiche sono netto calo: il Nikkei perde il 2,50%, a Hong Kong l’Hang Seng scende del 2,58%. Meglio va a Shanghai, in diminuzione dello 0,58%.
I futures accusano tutti perdite significative, nell’ordine dell’1,50/2%.
A trarne beneficio, come prevedibile, i beni rifugio: l’oro supera di slancio i $ 1.800 (1.803, + 0,97%), mentre il rendimento del treasury scende di 9 punti, riportandosi sotto 1,70%.
In ribasso il petrolio, con il WTI che questa mattina lascia sul terreno il 3,75% a % 75,52: a pesare sulle quotazioni, come evidente, il timore di nuovi lockdown, con conseguenti blocchi produttivi e della mobilità delle persone.
Spread sopra i 131 bp, con il rendimento del BTP che torna a sfiorare l’1,10%.
Leggero ritracciamento del $, con l’€/$ a 1,1236.
“Tiene” invece il bitcoin ($ 57.450), a conferma del fatto che alcuni investitori oramai lo considerano alla stregua di un bene rifugio, e quindi un’alternativa, per esempio, all’oro.
Ps: ancora una volta la teoria della relatività “vince”. Siamo tutti, come si diceva poco sopra, giustamente preoccupati dall’avanzata dell’inflazione: si parla del 3, del 4, nel caso più critico (USA e Germania) del 6% circa. Ma quanto è l’inflazione in Turchia? Siamo a circa il 40%, anche se i dati ufficiali parlano del 20% (ma ben sappiamo qual è il livello di “libertà di espressione” in quel Paese, dove, ad essere ottimisti, il regime è una “democratura”). Tempi durissimi quindi per “ponte” dell’Asia verso l’Europa. E forse anche per Erdogan, il padre-padrone del Paese.