Ben sappiamo come i mercati finanziari, con il loro andamento e le loro fluttuazioni, in fondo siano dei termometri. Ogni giorno ci comunicano qualcosa, e dalla loro osservazione possiamo comprendere come va il mondo.
Quella di ieri è stata una giornata particolarmente importante, con 2 eventi che l’hanno contraddistinta, uno ampiamente previsto, l’altro totalmente (o quasi) inaspettato: il primo è la decisione della FED di un nuovo rialzo dei tassi (+ 0,75%), a margine della lotta all’inflazione. L’altro, come noto, la minaccia nucleare da parte di Putin, dopo l’annuncio di un referendum “imposto” alle popolazioni del Donbass, quindi nei territori “invasi” dalle Forze Armate russe, e il richiamo di oltre 300.000 riservisti, decisione che ha scatenato proteste in molte città della Russia (si parla di oltre 1.200 cittadini fermati) e un “fuga” di molte cittadini dal Paese (per quello che può valere il termini “fuga” per una popolazione che, al 74%, è priva di passaporto…).
Di fronte ad una minaccia nucleare, i cui esiti potrebbero essere devastanti per il mondo intero, in tempi “normali” probabilmente ci sarebbe stato il “fuggi fuggi” da parte degli investitori. Ma i mercati forse non giudicano così credibili le parole di Putin (peraltro sempre più isolato politicamente anche a livello globale, se è vero che anche il leader cinese Xi Jin Ping ha preso le distanze, schierandosi per un “cessate il fuoco”): la caduta di ieri (con una volatilità molto accentuata nelle ultime 2 ore di contrattazione, quelle che sonmo seguite all’annuncio da parte della FED) e, tutto sommato, la relativa debolezza di questa mattina dei mercati asiatici (fatta eccezione di Hong Kong, che ha toccato i minimi dal 2008, ma c’è da dire che anche nell’ex colonia le autorità monetarie, seguendo la FED, hanno alzato i tassi dello 0,75%, portandoli al 3,5%) è da imputarsi più che altro ai timori che si stia andando, soprattutto in occidente, incontro ad una crisi economica più pesante del previsto.
Secondo la Banca Centrale americana, infatti, il PIL Usa quest’anno dovrebbe crescere di uno “striminzito” 0,2%, molto meno, quindi, di quanto previsto in precedenza (+ 1,7%), con una modesta ripresa nel 2023 (+ 1,2%). Quello di ieri non sarà certamente l’ultimo rialzo dell’anno: si pensa, infatti, che i tassi possano arrivare entro il 31/12 al 4,4%, con un ulteriore piccola variazione l’anno prossimo (4,6%), comunque inferiore a quello che molti osservatori pensavano potesse essere “l’atterraggio”, vale a dire il 5%. Sul fronte della disoccupazione, dall’attuale 3,7% (vicino ai minimi di sempre, 3,5%) si dovrebbe passare al 4,4%.
Quello che maggiormente ha spaventato i mercati, come l’altissima volatilità finale, con gli indici passati dall’essere positivi a – 1%, per poi recuperare la parità e infine chiudere intorno al – 1,75%, sta a confermare, è, appunto, l’apparente incertezza della FED, che sembra totalmente in balia degli eventi, e non, invece, in grado (entro certi limiti, ovviamente) “predeterminarli”. Powell, ancora una volta, dichiara la sua determinazione a sconfiggere il “nemico n. 1” di famiglie e imprese, dall’altra, però, non è in grado di definire un percorso “preciso”, quando, con una sorta di fatalismo dichiara, che tutto dipenderà dai dati futuri…A cui bisogna aggiungere un atteggiamento piuttosto “guardingo” degli operatori, rimasti scottati, in tempi non molto lontani (era l’anno scorso), dalle molte dichiarazioni del Presidente della più importante Banca Centrale del mondo, in cui affermava la “transitorietà” dell’inflazione e, quindi, di “non tenere pensieri”…”Pensieri” che, invece, si sono concretizzati, e anche in tempi rapidi, tanto da indurre i “money makers” a rivedere le loro strategie, invertendo la rotta nel tentativo di recuperare in fretta il tempo perso.
Ancora una volta, il segnale più forte, però, non arriva dagli indici azionari, bensì da quelli obbligazionari. Ieri il biennale americano ha toccato il 4,15%, per poi chiudere al 4,12%, il livello più alto dal 2007, mentre il decennale ha chiuso leggermente superiore alla chiusura precedente (4,54% vso 4,52%): un chiaro indicatore di come gli operatori vedano molto probabile una recessione nei prossimi mesi, che porterebbe le Banche Centrali probabilmente ad allentare prima del previsto il rigore monetario. Timori ulteriormente confermati dall’andamento del $, di nuovo vicino ai massimi vso € da 20 anni a questa parte (questa mattina sfiora lo 0,980).
Per quanto non semplice, la situazione dei mercati rimane sotto controllo.
Questa mattina le piazze asiatiche appaiono, come prevedibile, deboli, ma senza drammi: Nikkei a – 0,58%, inn ripresa rispetto ai minimi intra-day, mentre Shanghai tenta di portarsi verso la parità (– 0,21% al momento). Come detto, va peggio per Hong Kong (– 1,92%), un po’ per la sua alta componente di titoli tech, un po’ per la reazione al rialzo dello 0,75%.
Futures al momento in discesa un po’ ovunque.
Petrolio ancora altalenante: questa mattina troviamo il WTI a $ 83,20 (+ 0,19%).
Gas naturale Usa a $ 7,699 (- 1,20%).
Incerto anche l’oro ($ 1.657, – 0,58%), “schiacciato” dalla forza del $, suo principale rivale come “bene rifugio”.
Spread che “tiene” area 220 bp (questa mattina segna 223 bp), per un rendimento del ns decennale al 4,14%.
$, come anticipato, molto forte, a 0,9819 verso €, al top da 20 anni.
Bitcoin debole, come sempre accade con i mercati in discesa, a $ 18.737 (- 0,72%).
Buona giornata e, come sempre, grazie per l’attenzione.
Ps: si fa un gran parlare di “parità di genere”. Stupisce, quindi, che solo ieri i “comandi” di un volo 747, da Milano Malpensa a Seul, fossero nelle mani di un equipaggio totalmente al femminile. E’ la prima volta per la nostra aviazione civile, per quanto il volo fosse un cargo e non un volo passeggeri. Di strada ne abbiamo ancora da fare (o meglio, di cieli da attraversare).