Vai al contenuto

Direttore: Alessandro Plateroti

Previsioni economiche del 27 novembre: Presidente in pectore.

grafici finanziari, calcolatrice, soldi

Al 20 gennaio, giorno dell’insediamento alla Casa Bianca, mancano poco meno di 2 mesi, ma “l’incontinenza” di Trump è ogni giorno più evidente (a cui fanno da contraltare i “segnali sui radar” sempre più deboli da parte del Presidente uscente).

Il suo “manifesto elettorale” trova ogni giorno nuove conferme, come la sortita di ieri sui dazi ha lasciato intendere.

Questa volta i Paesi “attenzionati”, prima ancora della Cina (comunque e sempre chiamata in causa: non sia mai che il “Paese del dragone” sia considerato improvvisamente amico), sono stati Messico e Canada. Se per il Messico ci si potevano aspettare, sin da subito, provvedimenti decisi (è il Paese ritenuto principale responsabile dei flussi migratori illegali verso gli USA, oltre che quello da cui transita il maggior quantitativo di droghe destinate verso gli Stati Uniti), il Canada si pensava che, per il momento, potesse non essere considerato destinatario di provvedimenti immediati (peraltro, ovviamente, successivamente alla nomina “ufficiale” del Presidente eletto). Peraltro, va notato che i 3 Paesi avevano costituito, nel 1992, un’area di libero scambio (Nafta) che prevedeva la progressiva abolizione delle barriere doganali tra un Paese e l’altro, accordo parzialmente modificato nel 2020, con il trattato Usmca (United States-Mexico-Canada Agreement), che, a dire il vero, era rivolto all’export di auto, acciaio e alluminio. Va detto che il Canada è esportatore “netto” verso gli Usa, con oltre Us$ 309 MD di prodotti inviati, nel 2023, negli USA (tra cui anche materie energetiche come il petrolio – solo nel luglio 2024 oltre 4,3 ML di barili).

L’annuncio di ieri (dazi del 25% sull’import americano dai 2 Paesi, 10% aggiuntivo sui prodotti cinesi) ribadiscono, una volta di più, come sa subito Trump, per mettere in pratica il suo Make America Great Again, voglia mettere in pratica politiche protezionistiche. Una scelta che qualche problemino, non solo al proprio Paese, potrebbe crearlo.

Stimano, infatti, gli esperti del Fondo Monetario Internazionale, che un aumento dei dazi negli scambi tra Usa, Cina ed Europa, anche limitato ad un 10%, potrebbe causare una diminuzione del PIL globale per circa lo 0,4% entro il 2026. Paradossalmente, peggio andrebbe proprio per gli USA, che vedrebbero “andare in fumo” lo 0,4% l’anno prossimo e un altro 0,6% nel 2026. Una storia già vista durante il primo mandato del tycoon per effetto della caduta degli investimenti, soprattutto nell’ambito manufatturiero. Una riduzione che avverrebbe anche oltre i confini americani, colpendo l’area UE. Ma se i dazi salissero, per i prodotti cinesi, come promesso, al 60%, ecco che il calo del PIL aumenterebbe di un altro 0,2%.

Ma le conseguenze non si fermerebbero soltanto alla crescita economica.

L’introduzione delle tariffe (nell’ipotesi in cui funzionassero) impatterebbe immediatamente sui prezzi: ecco, quindi, che l’inflazione tornerebbe a crescere, costringendo, probabilmente, le Banche Centrali a rivedere le loro politiche monetarie. Peraltro, l’aumento dei prezzi a sua volta provocherebbe una diminuzione dell’import di merci dai Paesi oggetto di dazi: minori richieste di beni e prodotti significano minori richieste di valuta degli stessi Paesi, con relativo aumento della valuta del Paese importatore. Ecco, quindi, che le dinamiche valutarie (deprezzamento della valuta del Paese esportatore, rafforzamento di quella del Paese importatore) possono diventare una sorta di “deterrente” all’imposizione dei dazi, annullandone, in parte l’efficacia: lo dimostra bene, per esempio, cosa è successo al Peso messicano nei confronti del $ Usa: solo ieri il biglietto verde, sulla notizia dell’arrivo, nella nuova era Trump, dei dazi verso il Messico, ha guadagnato il 2,5%, portando al 27% il rafforzamento in poco più di 7 mesi. Guarda caso una percentuale simile ai dazi che verrebbero messi.

Come detto, siamo ancora nella fase delle “intenzioni”, anche se la “minaccia” è molto concreta. “Minaccia”, va detto, attraverso la quale, peraltro, il magnate americano vuole perseguire anche un altro obiettivo, questa volta più “politico”, soprattutto pensando al Messico, da cui passa, per esempio, gran parte dell’export di auto Volkswagen verso gli USA (10 volte quelle esportate dall’Europa verso gli USA) o, altro esempio, oltre il 91% dei pomodori che gli americani trovano sui banchi dei supermercati. Alcuni numeri possono aiutare a capire meglio cosa significhino gli scambi con il Messico e il Canada: gli Usa “assorbono” oltre l’80% dell’export messicano e il 97% del greggio che il Canada vende all’estero (coprendo il 60% dell’import di greggio da parte degli Usa). E il 49% dell’import americano arriva da Messico, Canada e Cina messi insieme.

La candidatura di Scott Bessent a Segretario al Tesoro Usa ha fornito ulteriori motivazioni ai mercati Usa, con lo S&P 500 salito oltre i 6000 punti (6.021,63, + 0,57%).

Questa mattina Nikkei in calo (- 0,80%), con lo yen ai massimi delle ultime 3 settimane.

Mercati cinesi in grande spolvero, grazie anche all’avvio degli stimoli finanziari da parte del Governo.

Shanghai è in crescita dell’1,50%, ma ancora maglio fa, a Hong Kong, l’Hang Seng, che sale del 2,48%.

Deboli il Kospi a Seul (- 0,70%) e il Taiex a Taiwan (- 1,52%).

Sulla parità Mumbai.

Futures ovunque intorno alla parità.

Petrolio in ripresa, ma sempre sotto la soglia dei $ 70 (69,16, + 0,47%).

In calo (- 3,29%) il gas naturale Usa ($ 3,359).

Risveglio dell’oro, che si riporta “sotto” ai $ 2.700 (2.672, + 0,98%).

Spread a 127,1, in leggero rialzo.

BTp 3,46%.

Bund 2,19%.

Treasury in lento ma continuo recupero, con il rendimento sceso al 4,28% (4,30 la chiusura di ieri, venerdì eravamo a 4,41%).

€/$ poco mosso, sempre sotto 1,05 (1,0497).

Bitcoin a $ 93.595.

Ps: “girare” con il contante in tasca è sempre stata una abitudine tipicamente italiana (avvalorata anche da norme in merito all’utilizzo dei contanti a livelli superiori alla media europea). Ma qualcosa si muove anche da noi. L’utilizzo di strumenti di pagamento elettronici, soprattutto, come ovvio, tra i giovani, è sempre più diffuso. Siamo ancora, e non di poco, sotto la media europea (224 operazioni pro-capite annue, vso una media europea di 394 – ma in Lituania siamo a 1.139, in Irlanda a 798, nei Paesi Bassi a 714, in Finlandia a 641, etc), ma comunque anche noi stiamo diventando un Paese “cashless”. Le dinamiche demografiche, peraltro, come si può intuire impattano anche sugli stili di vita: e noi, purtroppo, ci confermiamo, anche in questo, un “Paese per vecchi”…(o di vecchi).

Riproduzione riservata © 2024 - NM

ultimo aggiornamento: 27 Novembre 2024 8:44

Previsioni economiche del 26 novembre: a caccia.