La solidità (economica, finanziaria, monetaria) di un Paese non può prescindere dalla solidità del proprio sistema bancario.
Le banche, da sempre oggetto di discussione (spesso, nel bene e nel male, senza mezze misure: si pensi, senza andare troppo lontani nel tempo, al crack della Lemhann Brothers, causa della più grave crisi di questo secolo, o alle polemiche sugli utili miliardari realizzati con l’aumento dei tassi), rivestono una fondamentale funzione economica, indispensabile per il buon funzionamento dell’economia, trasferendo risorse finanziarie (denaro) da chi ne dispone verso chi, invece, ne necessita. Senza la presenza di intermediari, quali, appunto, sono le banche, i “prenditori” di denaro dovrebbe rivolgersi ai singoli risparmiatori, impresa quanto mai difficile e, soprattutto, con costi molto elevati.
Peraltro, proprio grazie alla grande crisi generata dai subprime (i mutui senza garanzie, o con garanzie parziali, da cui tutto è partito), il “modo di fare banca” è profondamente cambiato.
Oggi le regole, soprattutto, va detto, in Europa (negli USA la “deregulation”, parola quanto mai cara al Presidente eletto Trump, che già ne fece un largo uso durante il suo primo mandato, qualche “problemino” – forse anche più di un semplice “problemino” – lo ha causato) sono molto più ferree (basti pensare al Tier 1, vale a dire il coefficiente di capitale che indica il grado di patrimonializzazione delle banche: in altre parole, la componente di capitale che le banche sono obbligate a detenere per garantire i depositanti da eventuali perdite o, fatto ancor più grave, da eventuali situazioni di bancarotta. Lo si ottiene rapportando il patrimonio di base di un Istituto al totale delle attività ponderate per il rischio.
Al di là delle “regole”, uguali per tutte le banche europee (ecco uno dei vantaggi della UE…), un aspetto piuttosto importante, in un contesto di Paesi, seppur facenti parte di una “confederazione”, dotati di sovranità, è dato dal “controllo” sui singoli Istituti: se, cioè, gli azionisti sono “domestici”, e quindi giuridicamente situati in quel Paese, ovvero sono “stranieri”. Piuttosto semplice comprenderne le ragioni: per una banca è fondamentale essere vicino, in termini di esigenze, ma anche di “territorialità” ai propri clienti. “Conoscerli” significa conoscere il “sistema Paese”: nel momento in cui le banche sono “parte” integrante del “sistema Paese”, ne deriva che il rapporto è più semplice e diretto e l’attività in grado di produrre risultati e benefici maggiori.
Altro tema, il dimensionamento: non a caso si parla di banche sistemiche, vale a dire quelle che, in considerazione delle loro grandi dimensioni e della loro importanza sul mercato (anche in termini di capitalizzazione), sono soggette ad una vigilanza ancora maggiore rispetto ad altre. Ma, ovviamente, la dimensione ha conseguenze, come, peraltro, per qualsiasi impresa, sui costi e sulla marginalità: forse pochi altri settori stanno conoscendo una trasformazione così rapida come il sistema bancario, in grado di produrre economie di scala enormi e di garantire ulteriori marginalità e remunerazioni piuttosto generose agli azionisti.
L’OPA (Offerta Pubblica di Acquisto, o meglio OPS – Offerta Pubblica di Scambio, visto che, se dovesse andare in porto, avverrebbe “carta con carta”, vale a dire “scambiandosi” azioni in base ad un rapporto predeterminato) lanciata da Unicredit nei confronti di BPM si inserisce, appunto, in questo quadro, realizzando, per il management che l’ha lanciata, diversi obiettivi:
- Difendere “l’italianità” (anche se per qualcuno Uncredit non è una banca italiana, forse in quanto molti degli investitori istituzionali che la controllano non sono italiani);
- Raggiungere dimensioni “europee”: in questo modo la banca che nascerebbe sarebbe, ai valori attuali, la 3°, in termini di capitalizzazione, in Europa, dopo HSBC (€ 157,3 MD) e UBS (105,3 MD), con un valore pari ad € 70 MD circa, e con 19 ML di clienti (15 Unicredit, 4 Banco BPM).
- Mantenere un livello di remunerazione del business elevato, grazie, appunto, alle economie di scala che si realizzerebbero (basti pensare alla chiusura di molti sportelli, la riduzione del personale, etc).
Difficile al momento fare qualsiasi previsione sull’esito dell’operazione, anche se, forse, una considerazione la si può già fare (visto anche l’adeguamento del prezzo dei titoli): il “premio” offerto da Unicredit ai possessori dei titoli BPM è stato considerato (non solo dal mercato) un po’ “troppo” basso, tant’è vero che le azioni della banca milanese si sono apprezzate di circa il 5% (mentre quelle della banca “predatrice” hanno perso circa il 4,5%: non dimentichiamo che Unicredit è impegnato anche sul “fronte tedesco”, viste le “mire” su Commerzbank, anche se l’operazione, almeno per il momento, è congelata, vista la crisi politica che quel Paese sta attraversando, con le elezioni anticipate che si terranno nel febbraio 25. E la “politica”, in questi casi, non può, per le ragioni sopra indicate, “rimanere fuori” (e già si è visto ieri, anche se alcune dichiarazioni sembrano un po’ fuori luogo).
Ieri sera nuove chiusure positive per Wall Street: Dow Jones + 0,99%, Nasdaq + 0,14%, S&P 500 + 0,30%.
Le nuove dichiarazioni di Trump, che è tornato ad evocare i dazi, non fanno bene ai mercati asiatici.
Sia Shanghai che, a Hong Kong, l’Hang Seng, non riescono a trovare la spinta per ripartire, mantenendosi appena sotto la parità.
Peggio fa, a Tokyo, il Nikkei (- 0,87%), schiacciato dallo yen.
Kospi Seul -0,55%.
Taiex Taiwan – 1,17%.
Sulla parità i futures a Wall Street, mentre in Europa rimangono in territorio negativo (Eurostoxx – 0,19%).
Petrolio stabile, con il WTI a $ 69,132 (+ 0,16%).
Gas naturale Usa sui valori di ieri ($ 3,451).
Oro nuovamente in calo, a $ 2.619 (- 0,04% questa mattina).
Spread a 126,6 bp.
BTp 3,47%.
Bund a 2,21%.
Treasury a 4,28%.
€/$ poco mosso, a 1,0474.
Ritraccia il bitcoin, che si porta a $ 94.200, dopo che venerdì aveva, anche se solo per un attimo, superato i $ 100.000.
Ps: Macy’s è una delle più grandi catene di grandi magazzini al mondo, oltre ad essere una delle più storiche (la sua nascita risale al 1929). Sui giornali di oggi si legge una notizia che ha dell’incredibile: pare, infatti, che un suo singolo dipendente sia riuscito a distrarre (occultare?) qualcosa come $ 154 ML grazie a delle non meglio precisate “irregolarità contabili”. Quello che è certo è che la società deve ritardare la pubblicazione dei dati trimestrali almeno sino all’11 dicembre. Si sta parlando di “grande distribuzione”, e non, quindi, di oro, diamanti, oggetti di valore, transazioni finanziarie. Far sparire $ 154 ML di prodotti in scatola, pelati, alimentari, o anche vestiario richiede tempo, oltre che ingegno. Ma, soprattutto, richiede una grade abilità a “schivare” i controllo, supposto che ci siano…