Con il termine “Terra di mezzo” si identifica il grande continente fantastico di Arda, ambientazione delle vicende raccontate da Tolkien nei suoi libri: una storia lunga, composta da innumerevoli cambiamenti e colpi di scena, non semplice da racchiudere in poche parole.
Negli anni il termine, come noto, è stato “adottato”, nel gergo comune, per descrivere il “vuoto di potere” che ha permesso, per esempio, ad alcune organizzazioni malavitose di crescere e prosperare in diverse zone del nostro Paese.
Sotto certi aspetti, potremmo prendere a prestito la definizione per quanto si sta verificando a livello geopolitico. La “transizione” americana, conseguente al voto del 5 novembre, sta, di fatto, creando, appunto, un “vuoto di potere”: Biden, per quanto ancora formalmente “Commander in chief”, di fatto è un Presidente “depotenziato”, ormai impegnato a girare il mondo per i “saluti finali”. Di contro, Trump, Presidente designato, non ha al momento nessuna autorità “politica” e le sue dichiarazioni (o i suoi atti, vedi la formazione della nuova amministrazione, con molti prescelti che, più che ilarità, suscitano ben più di una preoccupazione sulla loro competenza e la loro moralità) hanno una valenza che non va oltre il “manifesto”, lasciando peraltro intendere quale strada intende seguire.
L’escalation del conflitto ucraino di questi ultimi giorni, con i contrattacchi dell’esercito ucraino e la paventata minaccia di un ricorso alle armi nucleari da parte di Mosca, si può dire sia, appunto, una diretta conseguenza della mancanza di leadership che si sta verificando (oltre che delle attese relative al “piano di pace” con cui Trump è convinto di porre fine al conflitto in 24-48 ore): sembra quasi che l’obiettivo dei contendenti sia arrivare al negoziato partendo ognuno da dei “punti di forza”, regola fondamentale per aspirare a “portare a casa qualcosa” (senza quelli, l’alternativa è l’arrendevolezza, e quindi la sconfitta a priori). Di certo Zelensky senza gli aiuti dell’occidente non ha la forza per contrastare Putin; né quest’ultimo sembra aver la capacità (e probabilmente la voglia) di affondare il colpo, per non isolare completamente il proprio Paese, se non addirittura provocare una crisi geopolitca ben più grave.
Fatto sta che in questi giorni la vicende belliche dell’est europeo qualche elemento di disturbo ai mercati lo stanno fornendo. Al momento assolutamente sotto controllo, ma, comunque, meritevole di attenzione. Lo si nota anche osservando l’andamento di alcune asset class ritenute “porto sicuro”: l’oro ha ripreso la sua salita, sono tornati, seppur modesti, gli acquisti sui treasury Usa, il $ continua a rimanere su livelli di forza rispetto alle altre valute. E il bitcoin, che per qualcuno ormai fa parte dei “beni rifugio”, questa notte ha toccato i $ 97.300 (ma qui le motivazioni sono anche altre, forse anche più importanti, quali lo “sdoganamento” da parte della futura amministrazione USA, come chiaramente fatto intendere da Trump).
Mercati che, va detto, continuano, peraltro, a dare segnali di una forza “relativa” piuttosto solida.
Una conferma ci arriva dal Global Dividend Index che Janus Henderson pubblica, puntualmente, ogni trimestre. Bene, nel 3° quarter dell’anno i dividendi (panel di 1.200 società) hanno continuato a crescere, arrivando a distribuire $ 431,1 MD, in aumento del 3,1% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. E per fine anno si stima il raggiungimento di una cifra di $ 1.730 MD. Se così fosse, la crescita sul 2023, sarebbe del 4,2%, facendo segnare il nuovo record assoluto. In realtà, rispetto alle precedenti stime, il dato è leggermente peggiore, ma solo perché quest’anno scenderanno i “pagamenti straordinari”, vale a dire i dividendi una tantum distribuiti a fronte di eventi straordinari. Senza quelli, la crescita sarebbe, infatti, ben più alta, pari al + 6,4%. A crescere maggiormente, come aree geografiche, la Cina (+ 12,3% l’aumento dei dividendi delle società cinesi, ma lì si partiva da dati certamente non positivi) e gli Stati Uniti (circa + 10%, percentuale leggermente inferiore ma ben più significativa), seguiti dal Giappone (+ 6,1%). Male il Regno Unito (- 7%, la Brexit vorrà pur dir qualcosa) e l’Asia (ex Giappone, ex Cina), – 6,8%. L’Europa si ferma a + 3,9%. “Colpa” anche della “stagionalità”: infatti, il 3° trimestre solitamente vede il pagamento di pochi dividendi (negli Usa, per es, la distribuzione avviene in maniera “continuativa”).
Anche il 2025, ci dice la Casa di investimenti americana, dovrebbe dare buone soddisfazioni agli “stakeholder”, con gli utili che dovrebbero continuare a crescere, anche se, probabilmente, gli “exploit” saranno sempre meno e più contenuti, lasciando intendere, neanche troppo velatamente, che l’economia globale non dovrebbe subire contraccolpi o, peggio, fenomeni recessivi, pur evidenziando differenze tra un’area geografica e l’altra o tra un settore e l’altro (per es, con riferimento a quest’anno, se il settore bancario è stato tra i più performanti, insieme ai media e alla tecnologia, dall’altra il settore minerario e quello dei trasporti hanno realizzato performance certamente poco entusiasmanti).
Ieri sera chiusure newyorkesi senza squilli: Dow Jones + 0,32%, Nasdaq – 0,08%, S&P 500 piatto. A “guidare” gli indici le attese dei dati di Nvidia, arrivati a mercati chiusi. La società dei microprocessori ha raddoppiato i ricavi, arrivati a $ 35,1 MD (contro attese di 33,1), con un utile più che raddoppiato ($ 19,3 MD vs i 9,2 di un anno fa). Nonostante questo, l’andamento del titolo nel dopoborsa (circa – 2%) è sembrato penalizzato da stime per l’anno nuovo che, per quanto ancora in crescita, forse, ad una prima lettura, non sono sembrate così forti (peraltro rimane difficile pensare a ritmi di crescita sempre a doppia cifra).
Questa mattina a Tokyo il Nikkei continua a non dare segnali di ripresa (– 0,85%).
Meglio fanno le borse cinesi, con l’Hang Seng di Hong Kong a – 0,29% e Shanghai intorno alla parità.
Taiex Taiwan – 0,58%.
Kospi Seul in ribasso marginale (- 0,07%).
Mumbai apre in ribasso dello 0,7%.
Futures sulla parità in Europa, appena negativa oltreoceano (S&P 500 – 0,18%).
Petrolio in rafforzamento (WTI $ 69,39, + 0,83%).
Gas naturale Usa $ 3,323 (+ 3,88%): il “grande freddo “ si fa sentire sui prezzi.
Oro in riavvicinamento ai $ 2.700: questa mattina sale a $ 2.666 (+ 0,44%).
Spread 121,5 bp.
BTP al 3,58%, poco mosso.
Senza variazioni il Bund, a 2,37%.
Stabile anche il treasury, sempre a 4,40%.
€/$ 1,0537.
Ad un passo dai $ 100.000 il bitcoin: in questi minuti lo troviamo a $ 97.700,
Ps: anche l’etimologia è in continuo “movimento”. A dircelo non è solo la Treccani, ma anche il British Council, l’ente culturale britannico. Che ha cercato di “condensare” in 90 parole i cambiamenti lessicali intervenuti negli ultimi 90 anni. Si va dal nylon al bikini, dal jukebox al rock’n’roll, dal karaoke all’ebook, per arrivare alla “situationship” (relazione senza troppi coinvolgimenti sentimentali). Ma “l’evoluzione” continua; secondo un altro ente, il Dizionario di Cambridge, oggi la parola più “disruptive” è to manifest, il cui significato dal semplice “manifestare” si è allargato sino a rappresentare l’ottenimento di qualcosa che si desidera con la convinzione che accresca la possibilità che si verifichi. Quindi, buon “to manifest” a tutti.