Crescita economica notevolmente superiore a quella ottenuta dal “resto del mondo” sviluppato, disoccupazione ai minimi storici, con qualcosa come 16 milioni di posti di lavoro creati negli ultimi 4 anni, quotazioni di borsa ai massimi di sempre, inflazione tornata sotto i livelli di guardia.
Chiunque si presentasse con questi risultati, in qualsiasi Paese al mondo, non avrebbe certamente problemi ad essere rieletto.
Ma non negli Stati Uniti.
L’incertezza (non per gli allibratori però: per loro il risultato è più chiaro, assegnando a Trump il 60% di probabilità di vittoria) che sta accompagnando anche gli ultimi giorni di campagna elettorale (si voterà martedì prossimo) ci racconta di un Paese non solo diviso, ma in cui la “percezione” della realtà, da parte soprattutto delle classi meno abbienti, è un po’ diversa da quella che i numeri ci raccontano.
Come ben sintetizzato in un articolo su Il Sole 24 ore di oggi, il fatto che l’inflazione sia scesa intorno al 3% o che il PIL americano cresca, caschi il mondo, di circa il 3% anche quest’anno rappresentano soltanto una “statistica”.
Al cittadino medio americano, per essere chiari, interessano altre cose: quanto costa un pieno di benzina, quanto incide la rata del mutuo sulla propria retribuzione, banalmente quanto spende per portare i figli a mangiare un cheeseburger almeno una volta al mese (altrimenti che americani si sarebbe…), quanto costa una dozzina di uova o il bacon per la colazione del mattino (hai voglia a predicare una sana alimentazione…), o altri generi di largo consumo (vogliamo parlare della coca-cola?). E su questo fronte il risultato, per i democratici e per Kamala Harris, è inesorabile. Il cittadino medio americano si sente più povero (molto più povero) rispetto a 4 anni fa. E il fatto che il divario, rispetto ai cittadini di mezzo mondo, Europa (la Cina, a livello di singolo abitante, non viene minimamente considerata, mentre lo è, eccome, come Paese), sia notevolmente migliorato non importa pressochè a nessuno. Anzi, sembra quasi che l’ostentazione dei dati economici, sottolineandone la forza, da parte della Presidenza Biden sia quasi una scusa per nascondere la realtà.
Per non parlare del tema dell’immigrazione clandestina, da molti considerata la prima causadei problemi legati alla sicurezza delle persone, con Trump abilissimo a “cavalcarla”, facendone uno dei suoi cavalli di battaglia.
In effetti, durante la sua “stagione” alla Casa Bianca, il picco di entrate nel Paese era stato di circa 150.000 ingressi al mese, con una media inferiore ai 100.000 ingressi mese.
Con Biden le cose sono andate (almeno sino alla metà dell’anno in corso), in modo un po’ diverso, con gli ingressi clandestini arrivati sino a 250.000 al mese, con una media almeno doppia rispetto alla “reggenza” repubblicana del quadriennio precedente. Negli ultimi mesi anche l’amministrazione democratica sembra aver “sposato” una linea di maggior rigore, ma, oramai, sembra che “la frittata” sia fatta.
In un contesto simile, la campagna di Trump, fatto di un linguaggio semplice, che “diritto” alla “pancia” dell’elettorato (quanto meno del suo: in questo dimostra di conoscerlo molto bene, cosa che invece difetta alla Harris), che si accompagna a slogan facili da ricordare (altrimenti che slogan sarebbe) e in cui, soprattutto, riescono ad identificarsi molti americani che si sentono “messi da parte” (non a caso molti cittadini di colore e ispanici, quasi paradossalmente, voteranno per il tycoon), come il Make America Great Again (MAGA), trova un terreno fertile.
Diventano, quindi, ancora più importanti quei Paesi (circa 7, denominati, come ormai sappiamo, swing states), né rurali (pertanto ad appannaggio della “destra” repubblicana) né “upper class” (in questo caso “terreno di conquista” della sinistra “liberal” democratica) composti, in prevalenza, dalla “classe operaia” (vedi il Michigan o la Pennsylvania), dove il peso della crisi, appunto, è percepito ben più che in altri Stati.
Si parla, su un totale di circa 260 ML di aventi diritti al voto (che, ricordiamo, non eleggeranno direttamente il Presidente, ma i Grandi Elettori – in totale 538, verrà eletto, pertanto, chi arriverà ad almeno 270 seggi), di poche migliaia di voi in grado di spostare le sorti di una nazione (e, in parte, del mondo): manco si trattasse delle elezioni per il Presidente della regione Liguria…..
Dopo gli ennesimi record di ieri sera a Wall Street (Dow Jones + 0,65%, S&P 500 + 0,27%, Russel 2000 – small/medium cap – + 1.5%, Nasdaq piatto), questa mattina il Nikkei di Tokyo, incurante anche oggi della precaria situazione politica (il partito di maggioranza è uscito sconfitto dalle elezioni di domenica), sale dello 0,77%.
Va nella direzione giusta anche l’Hang Seng di Hong Kong (+ 0,37%): ripiega (– 1,16%) Shanghai, mentre cresce l’attesa per la riunione, la settimana prossima, del Comitato permanente del Congresso Nazionale del Popolo, dal quale si attendono decisioni per stimolare la crescita dell’economia e la ripartenza dei consumi.
Poco mosso il Kospi a Seul (+ 0,21%).
Taiex Taiwan – 1,17%.
Futures anche oggi ben orientati, con trialzi intorno allo 0,15/0,20%.
Ieri giornata giornata campale per il petrolio, in caduta libera (ha perso il 6%), con il WTI sceso in area $ 67,5 (questa mattina 67,63, + 0,27%). A determinare il crollo un evento, se vogliamo, positivo, vale a dire il fatto che Israele, nel suo attacco di sabato all’Iran, abbia “salvato” i siti petroliferi. Ergo, il prezzo del petrolio, in questa fase, dipende quasi totalmente, dalla situazione geo-politica più che da quelle economica.
Gas naturale Usa a $ 2,84, -1,01%.
Oro che conferma la sua forza, portandosi a $ 2.767 (+ 0,34% questa mattina).
Spread sui livelli di ieri (119 bp).
BTP al 3,50%.
Bund 2,31%.
Si indebolisce appena il treasury Usa (4,26%).
Stabile l’€/$, a 1,080.
Ulteriore allungo del bitcoin, che si spinge sino a $ 71.920.
Ps: in molti si chiederanno perché, negli USA, si voti di martedì. Bisogna, ovviamente, andare indietro nel tempo. Gli Stati Uniti, nati nel 1776, erano, all’epoca, un Paese prevalentemente agricolo; in più, le distanze erano, viste le dimensioni, notevolissime, e si viaggiava prevalentemente a cavallo o in calesse (la modernizzazione ferroviaria stava arrivando). Nel 1845 il Congresso decise, quindi, di “standardizzare” una data. Che, per forza di cose, era già compresa tra novembre e inizio dicembre, periodo in cui l’agricoltura “riposava”. La domenica era considerata “sacra”, fatta di riposo e di riti religiosi. Il lunedì non poteva essere un giorno “buono”, in quanto avrebbe costretto, in considerazione delle distanze, molti a partite la domenica. Il mercoledì, invece, era, tradizionalmente, giorno di mercato, per cui molti agricoltori sarebbero stati impegnati a vendere le loro merci. Per cui rimaneva il martedì. Per l’esattezza il martedì dopo il primo lunedì del mese di novembre.