Tra il 4 dicembre 1987 (il 19 ottobre il Dow Jones perse, in una sola seduta, il 22,61%, il peggiore che si ricordi, superiore a qualsiasi altro crollo che, nel corso degli anni, si sia verificato nelle varie crisi che hanno fatto la “storia” dei mercati, sia che si parli della “bolla dei tulipani”, forse la prima di cui si ha memoria, che colpì, ovviamente, i Paesi Bassi circa 400 anni fa – erano gli anni 1636-37 – alle ben più recenti crisi del 1929-30 – forse, nell’immaginario collettivo – la più grave dell’era moderna – o quella “sub-prime” del 2008-9) e il 24 marzo 2000 l’indice S&P 500 è arrivato a guadagnare oltre il 582%, con un ciclo di rialzo durato la bellezza di 4.494 giorni. Il più clamoroso che si ricordi, seguito, in epoca più recente, da quello iniziato a marzo 2009 e concluso con lo scoppio del Covid, nel febbraio 2020.
Quello in corso, quindi, iniziato proprio 2 anni fa, può sembrare poca cosa, limitandosi (per ora) il rialzo ad un + 61% (58% l’azionario globale, vale a dire l’indice MSCI World). E dire che le principali principali banche d’affari, nessuna esclusa, avevano “dato” l’indice S&P 500, alla fine di quest’anno, a livelli ben inferiori: la più positiva (Oppenheimer) aveva previsto l’indice USA a 5.200 punti, mentre la più negativa (JP. Morgan) non era andata oltre i 4.200 punti. Ora siamo a 5.800 punti, il 10% sopra il dato più positivo, ben il 25% oltre a quello più negativo.
Vero che l’anno non è ancora finito, ma prevedere una “debacle” dei mercati così grave sembra alquanto improbabile.
L’oggettività, peraltro, è un elemento fondamentale in qualsiasi analisi e in qualsiasi ambito. E’ doveroso, quindi, guardare alla “realtà” che si sta vivendo, in tutti i suoi aspetti.
In questi 2 anni non sono mancati i momenti di difficoltà: basti pensare alla crisi delle banche regionali USA, che, in qualche giornata della primavera dello scorso anno, ha fatto venire più di un brivido a qualche investitore, richiamando alla memoria le terribili giornate che hanno contraddistinto il fallimento della Lehman Brothers, con tutto quello che si è trascinato. O alla ben più recente (era inizio agosto) crisi giapponese, con il Nikkei che è arrivato a perdere il 12,58%, uno degli shock più gravi che si ricordino per quel mercato, per quanto prontamente recuperato (il tutto legato alla politica monetaria “contratrian” – rispetto al resto del mondo – della Bank of Japan, decisa a rialzare i tassi, seppur marginalmente).
Ma anche ora gli elementi di preoccupazione non mancano.
Il più attuale, non c’è dubbio, è la potenziale escalation di una crisi geo-politica, soprattutto con riguardo al medio-oriente, con Israele sempre più deciso a “non guardare in faccia a nessuno”, sia che si tratti di alleati che di forze multilaterali. Cosa che, oltre, ovviamente, ad isolare sempre di più lo Stato ebraico rispetto alla “community” internazionale, non fa che fomentare estremismi ed atti terroristiche anche gravi, per non parlare dell’eventuale coinvolgimento dell’Iran.
C’è poi l’elemento politico “clou” dell’anno, con le Presidenziali americane ormai in vista: mancano circa 20 giorni all’appuntamento del 5 novembre, con i 2 candidati dati sulla parità: cosa che, se così dovesse rimanere, in realtà significherebbe, quasi certamente, consegnare il Paese a Donald Trump. Infatti, per la particolare Legge elettorale americana, non vince chi, in assoluto, prende più voti, ma chi si assicura il maggior numero di Grandi Elettori (che poi sono altro che gli eletti al Congresso, pari a 535 più 3 di Washington D.C.): saranno loro, votati dai cittadini americani, poi ad eleggere il Presidente. Negli USA vale “l’all in”: vale a dire, chi dovesse vincere in uno stato, si “prende tutto”, inteso come i Rappresentanti in parlamento. Ecco, quindi, che può succedere che un candidato, vincendo negli Stati più popolosi, “raggiunge” un numero di elettori superiori, ma poi, nella realtà, a vincere è l’avversario, che aggiunge “tanti piccoli mattoncini” e ottiene la maggioranza dei Parlamentari. Esattamente quello che è successo proprio a Donald Trump nel 2016, quando, pur ottenendo circa 3 milioni in meno di voti (62,9 ML vso 65,8) conquistò la Casa Bianca ai danni di Hillary Clinton. E questo è il rischio che può correre Kamala Harris.
Rimane, poi, il tema economia, su cui il dibattito tra hard landing, soft landing o no landing non è ancora chiuso. Indubbiamente, le differenze tra le varie aree geografiche del mondo non aiutano a definire quale “atterraggio” sarà vincente. Se guardiamo agli USA, il no-landing (fermo restando l’esito elettorale, che, almeno nel breve, qualche “disturbo” potrebbe crearlo) sembra l’ipotesi più concreta. Diversa la situazione europea, area in cui la “fatica” di alcuni Paesi (peraltro i più importanti, a partire dalla Germania, ma con Francia e Italia “a ruota”) si sta confermando ogni giorno di più. Per arrivare alla Cina, l’altro “grande malato”, al cui “capezzale” non passa giorno che qualcuno non cerchi qualche cura che possa porre rimedio. Non più tardi di sabato, infatti, le autorità cinesi hanno deciso alcuni provvedimenti che potrebbe risollevare le sorti del “dragone”, a cominciare dagli indici azionari, che, peraltro, qualche segnale (forse anche più di un segnale) l’ha dato. Ecco quindi che verranno emesse obbligazioni governative speciali (si parla del cv di $ 283 MD) entro il 2025, aumentando la massa monetaria in circolazione per sostenere i consumi. Per non parlare dell’utilizzo dei proventi dei Titoli di stato locali per aiutare il mercato immobiliare e ricapitalizzare le grandi banche statali. E anche l’emissione di obbligazioni speciali del Tesoro per rafforzare il capitale core (Tier-1) dei grandi gruppi Statali.
Le reazioni cinesi alle decisioni prese sabato, pur non sfociando nell’euforia, sono positive.
Shanghai sale dell’1,65, annullando in parte lo scivolone di venerdì.
Leggermente negativa Hong Kong, dove l’Hang Seng scende dello 0,46%.
Chiusa per festività Tokyo.
Kospi di Seul + 0,93%.
Positivo, seppur marginalmente, il Taiex di Taiwan (+ 0,32%).
Futures intorno alla parità un po’ ovunque.
In calo il petrolio, con il WTI a $ 74,59 (- 1,28%).
Gas naturale Usa $ 2,587 (- 1,56%).
Oro a $ 2.666.
Spread a 128,7 bp.
BTP al 3,54%.
Bund 2,26%.
Treasury al 4.10% (+ 0,74%).
Ancora in rafforzamento il $, a 1,09 vs €.
Bitcoin a $ 62.709.
Ps: giornata indubbiamente “trionfale” quella di ieri per Elon Musk. La “sua creatura” Space X ha aggiornato (dopo qualche flop) i suoi successi. E già in tanti fantasticano viaggi sulla Luna (evento quasi scontato) e su Marte. Infatti la il razzo Super Heavy ieri è decollato dalla base di Boca Chica, in Texas, portando con sé la navicella spaziale Star Ship. Sin qui, nulla di nuovo. Arrivato all’altezza di 70km dalla terra, ha sganciato la navicella, planata nel punto esatto previsto dagli scienziati nell’oceano indiano (chissà come mai le navicelli spaziali cadono sempre nell’Oceano indiano…), per poi ritornare sulla terra. Dove, però, è stato “accolto” dalle “braccia” della rampa da cui era decollato. Pronto per essere riutilizzato per la prossima missione. Le nuove missioni spaziali: ovvero l’arte del riciclo.