Se la salute del sistema bancario può dare un immediato colpo d’occhio sulla salute di un Paese, potremmo dire che l’Italia non è messa così male. Ben sappiamo, peraltro, che lo stato di benessere o meno non è dato solo dalla solidità del sistema bancario: questa è una delle voci, indubbiamente importante per garantire crescita e solidità per le imprese e le famiglie, essendo l’anello di congiunzione tra gli organismi monetari e il “sistema Paese”, “mettendo a terra” le politiche monetarie. Ma le voci che contribuiscono a determinare la forza di un singolo Stato o di un’area, come nel caso dell’Europa, sono molteplici, e non solo prettamente economiche.
Fatto sta che ci scopriamo, per una volta, “compratori” e non “venditori”, come la storia degli ultimi anni ci ha abituati (non si contano le aziende, soprattutto nell’ambito del lusso, il cui controllo o, comunque, una quota significativa è passato in mani straniere). E lo facciamo in un settore, quello bancario, forse uno dei principali artefici della profonda crisi che ha colpito, una quindicina di anni fa, il nostro Paese (certamente non l’unico: ma anche questa è storia nota). Con “l’affondo” di ieri di Unicredit, che, con un’operazione lampo, si è “accaparrato” un altro 4,5% di Commerzbank (la seconda banca tedesca), portando la sua quota al 9%, spendendo circa € 1,5 MD, di cui circa la metà attraverso un’operazione “Abb”, acronimo di Accelerate bookbuilding (passaggio di azioni da un investitore ad un altro in modo rapido ed efficiente, al di fuori delle tradizionali transazioni di mercato), una banca italiana torna ad essere protagonista in Europa (tra l’altro la banca italiana già controllava, in Germania, HVB (Hypo Vereinsbank), la terza banca tedesca: se la “campagna di Germania” dovesse proseguire, ipotizzando la fusione tra i 2 istituti, la banca che ne deriverebbe diventerebbe la prima di quel Paese. Ne conseguirebbe che una banca italiana controllerebbe la prima banca tedesca (un “colpo basso” mica da ridere per chi ha sempre ritenuto di essere il “primo della classe”). Ma questo, al momento, rientra nella “fantafinanza”.
Cosa diversa è la realtà. E la realtà ci dice che la banca più solida al mondo è JP Morgan, che capitalizza qualcosa come $ 579 MD, quanto le prime 10 banche europee messe insieme. La maggior banca italiana, come valore di mercato, è Intesa, che “vale” circa € 67 MD, cioè 8 volte meno. Unicredit ad oggi ha un valore di € 59 MD, quindi 9 volte meno. E la principale banca europea, HSBC, ne vale 141. Insomma, la strada è lunga, ma ci aiuta a capire, almeno in parte, le motivazioni della mossa di ieri: se non si allarga il perimetro di azione, competere diventa sempre più difficile (guarda caso quello che ha detto Draghi non più tardi di 3 giorni fa esponendo, a Bruxelles, il suo studio sulla competitività).
Certamente l’operazione fa nascere scenari nuovi per il “risiko” bancario italiano, la ridefinizione, cioè, del nostro sistema: in questo modo, la banca milanese si “taglia fuori” da possibili ulteriori acquisizioni e/o fusioni di istituti minori (il sistema delle Banche popolari), per i quali “stare sul mercato” diventa ogni giorno più complicato. Ma non bisognerà, con tutta probabilità, aspettare molto per capire cosa potrebbe accadere: si avvicina, infatti, sempre più il momento in cui il Tesoro dovrà “piazzare” la sua quota residua di MPS (pari al 26% del capitale).
Da un punto di vista “macro”, poi, probabilmente non è casuale che l’operazione avvenga in un momento in cui i tassi, ormai è certo, abbiano preso una certa direzione. Per quanto il sistema (bancario) sia corso al riparo, diversificando il “core business”, certamente la “marginalità” sull’attività “primaria” (prestare denaro) è destinata a diminuire: un motivo in più per creare “valore” attraverso le aggregazioni. Ad un costo, nel caso di ricorso al debito (non è il caso, comunque, di Unicredit), più basso rispetto al recente passato. Continuando, quindi, seppur a fronte di esborsi finanziari non indifferenti, a “premiare” gli azionisti con utili (dividendi) molto “ricchi”, generando, pertanto, nuova fiducia e “fidelizzando” gli investitori.
A proposito di costo del denaro, oggi è il giorno della BCE. Dopo il taglio di oggi (dato per certo un nuovo – 0,25%), il mercato prevede, da qui a fine 2025, altri 6 interventi, per una diminuzione complessiva pari al – 1,25%.
Ancor di più quelli attesi da parte della FED, addirittura, nello stesso periodo, 10, a partire da quello della settimana prossima. I dati sull’inflazione pubblicati ieri (2,5% verso il 2,9% di luglio, leggermente meno rispetto all’atteso 2,6%, anche se l’inflazione “core” è rimasta al 3,2%) hanno fatto risalire le probabilità (85%) che il taglio si limiterà ad uno 0,25% e non, invece, allo 0,50%, come in molti ritenevano sino all’altro ieri.
L’andamento dell’inflazione USA, dopo un momento di indecisione (fondata sulla preoccupazione che le aziende non siano più in grado di mantenere un’adeguata marginalità, e quindi possa finire la stagione degli “alti dividendi”), ha dato forza ai listini americani. In chiusura il Nasdaq ha fatto segnare + 2,07%, il Dow + 0,31%, S&P 500 + 1,07%.
“L’onda lunga” si propaga ai listini dell’area asiatica, a partire dal Nikkei, che rimbalza di ben il 3,41% (quando si arriva a queste percentuali una “concausa” va sempre cercata nel cambio: l’indebolimento della valuta, nel caso di Paesi con una vocazione all’export, come, appunto, il Giappone, aiuta non poca le quotazioni azionarie).
Bene anche, a Hong Kong, l’Hang Seng, a + 1,17%, mentre Shanghai, ancora “lumicino di coda”, agguanta la parità solo ora.
Taiex Taiwan + 3%, Kospi Seul + 1,7%, Mumbai + 0,3%, a conferma di una giornata ovunque positiva.
Futures tutti con il segno più, ad iniziare dall’Europa (Eurostoxx + 1,34%, MIB + 1,23%).
In rialzo il petrolio, con il WTI a $ 68,24 (+ 1,28%).
Gas naturale USA $ 2,284, + 0,48%.
Poco mosso l’oro, a $ 2.523,90 (+ 0,10%).
Spread, a 136 bp.
BTP al 3,46%, sui minimi dell’anno.
Bund 2,10%.
Treasury al 3,66%.
€/$ 1,109, con il $ ancora in lievissimo rafforzamento.
Bitcoin in cerca di stabilità, a $ 58.175.
Ps: ancora presto per dire chi sarà il vincitore, a novembre, delle Presidenziali americane. Certamente, a quanto pare, oltre il 67% di coloro che hanno assistito all’incontro/scontro tra Kamala Harris e Donald Trump ritiene che la candidata democratica abbia surclassato il “tycoon”, fermo al 33% (guarda caso, le stesse percentuali, però invertite, del precedente appuntamento Biden e Trump, che è costata la candidatura all’attuale Presidente). Se, però, i mercati sono un indicatore, il “verdetto” potrebbe essere già stato emesso: ieri le quotazioni, a Wall Street, di Trump Media & Technology, sono crollate del 14%. Ancora un caso di “profezie che si autodeterminano”….?