In questi giorni Parigi ha dovuto cedere a Londra lo scettro della borsa maggiormente capitalizzata in Europa (evidentemente non limitandoci alla UE): il CAC 40, infatti, è sceso sotto $ 3.000 MD di valore, mentre il FTSE 100 londinese è salito a $ 3.120. La “debacle” della scorsa settimana si è anche “mangiata” i guadagni borsistici dall’inizio dell’anno, portando l’indice appena sopra lo zero, contro l’8,42% di Milano, l’8,49% di Madrid e anche il 7,89% di Francoforte.
Ancora peggio ha fatto lo spread, quasi raddoppiato nello spazio di poche sedute, arrivando a 77 bp, massimo dal 2017, per riprendersi nella giornata di ieri e portarsi a 73 bp.
E’ a tutti chiaro che i mercati sono “apolitici”: non “tifano”, cioè, per uno schieramento o per un altro (il caso più evidente è quello americano: guardando le serie “storiche” degli anni elettorali, si noterà che il loro andamento non dipende più di tanto dal fatto che a vincere siano i democratici o i repubblicani, quanto piuttosto che non vi sia “incertezza” e il Congresso sia in grado di svolgere a pieno le sue funzioni), ma rivolgono lo sguardo un po’ oltre, analizzando la sostenibilità o meno dei programmi economici e i piani di crescita che ne possono derivare.
Ancora una volta, quindi, tutto (o quassi) ruota intorno alla parola “sostenibilità”. Termine, a dire il vero, piuttosto abusato, ultimamente, anche con riferimento alla transizione ambientale. Nel caso specifico si fa riferimento, ovviamente, alla capacità di un Paese di trovare le risorse per finanziare la crescita senza venir meno al rispetto dei parametri sanciti dagli accordi comunitari (il famoso “patto stabilità”, declinato in controllo del deficit e rientro del debito pubblico).
In questi anni spesso (quasi sempre) si è parlato del nostro Paese come il “malato grave” d’Europa: una considerazione avvalorata dai numeri, che ancora oggi, per quanto, in alcuni momenti, si faccia largo un tiepido ottimismo, rimangono piuttosto gravi, con un debito pubblico che non si “schioda” dal 140% e un deficit decollato oltre il 7%, il più elevato dell’area UE.
Peraltro, a livello UE, siamo in buona compagnia. Una compagnia che, non a caso, comprende prima di tutto i nostri “cugini” francesi. E proprio guardando “oltralpe” verrebbe da dire che nulla è casuale e che tutto trova una spiegazione.
Se da una parte la borsa di Parigi ha perso il primo posto, come detto, in Europa, in termini di capitalizzazione, dall’altra scopriamo che il debito francese è, in termini assoluti (dati al 31/12/2023) il più alto d’Europa, arrivando a toccare i 3.101 MD €, quasi 250 MD in più di quello italiano (che però lo sopravanza in termini percentuali).
Ma quello che forse rende tutto ancora più chiaro è un altro dato ancora: oltre la metà (€ 1.567 MD, pari al 50,5%) è in mano ad investitori esteri: è come se il “destino” della Francia fosse in mano ad investitori “non residenti”. In questo l’Italia è stata, soprattutto negli ultimi anni, molto più “lungimirante”, aumentando la quota di debito detenuta dalle famiglie e dalle imprese private “non finanziarie” (vengono cioè escluse le banche, le assicurazioni e gli operatori finanziari, quali le società di asset management) fino a portarla al 13,2% (ricordiamo tutti il “boom” di sottoscrizioni che ha accompagnato le varie edizioni del BTP Valore), riducendo, di contro, quella in mano ad investitori esteri, oggi pari al 27,6%. Nulla a che vedere, certo, con il Giappone, Paese che, seppur gravato dal livello più alto in assoluto di debito – siamo intorno al 250% del PIL, una percentuale che “stenderebbe” chiunque -, “non fa una piega”, grazie anche al fatto che il proprio debito per il 90% è controllato da “mani amiche”, intendendo per tali le Istituzioni finanziarie, le famiglie e le società private “residenti”. In Francia, invece, il debito pubblico è ritenuto, dalle famiglie e dal settore privato, quasi una “merce che scotta”: non si spiega altrimenti il fatto che solo l’1,4% (unovirgolaquattropercento) al momento ha deciso di investire sul proprio Paese.
Possiamo ben capire, quindi, il “perché” di tante turbolenze e “inquietudini” lungo la Senna: nel caso in cui il nuovo Governo non fosse in grado di “controllare” i conti (indipendentemente dal vincitore), il rischio è che non pochi potrebbero essere coloro che “molleranno” il debito francese (anche perché, in giro per l’Europa qualche “occasione di acquisto, parlando di titoli governativi, c’è: basti pensare, banalmente, ai nostri titoli o a quelli spagnoli, per citare 2 esempi di Paesi, come si diceva una volta, “too big to fail”, letteralmente “troppo grandi per fallire”). E se venisse meno la fiducia allora sì che si aprirebbero scenari ben poco “olimpici” per Parigi (a distanza di poche settimane dai giochi, con una vetrina internazionale che rischierebbe di diventare un boomerang devastante per Macron & c.).
Inizio settimana “trionfale” per Wall Street: ieri sera tutti gli indici hanno chiuso in territorio ampiamente positivo, a partire dal “solito” Nasdaq (+ 1,24%), seguito dallo S&P 500 (+ 0,8%, trentesimo record del 2024) e dal Dow Jones (+ 0,49%).
L’effetto “trascinamento” questa mattina si nota solo in parte sulle borse asiatiche.
Buoni segnali arrivano da Tokyo, dove il Nikkei fa segnare + 0,74%.
Shanghai limita il recupero allo 0,17%.
Rimane negativo, a Hong Kong, l’Hang Seng, in calo dello 0,34%.
Rialzi per Taiwan (+ 1%), sulla spinta di TSM (Taiwan Semiconductor Manufacturing, + 2,2%) e Sidney (+ 0,7%).
Apertura positiva anche per Mumbai (+ 0,3%).
Futures che confermano la voglia di riprendersi e un ritorno, anche se “controllato”, della fiducia.
Fiducia che ha riportato verso l’alto le quotazioni del petrolio, con il WTI tornato verso gli 80$ (79,63, anche se questa mattina è in leggero calo, – 0,23%).
Gas naturale Usa a $ 2,816.
Oro a $ 2.336.
Bund “prezzato” a 152,2 questa mattina, con il BTP a 3,93%.
Bund 2,41%.
Treasury 4,26%.
€/$ a 1,0725.
Bitcoin che non ne vuol sapere di risalire, rimanendo nella “palude” dei $ 65.000 (65.676).
Buona giornata e grazie, come sempre, per l’attenzione.
Ps: possiamo ben dire che le “magnifiche 7” hanno lasciato spazio alle “splendide 3”. Oramai Microsoft, Apple e Nvidia fanno, infatti, corsa a sé, con una capitalizzazione che ha, per ciascuna di loro, superato, e non di poco, i $ 3.000 MD: nell’ordine $ 3.289, $ 3.259, $ 3.244. Da sole, cioè, valgono circa 1/3 del PIL americano. Ma la cosa che stupisce (e che, sotto certi aspetti, “rassicura” i mercati) è che continuano a “macinare” utili che fanno felici gli azionisti (e che allontanano, secondo molti, l’effetto “bolla”).