Che l’economia (e con lei i mercati finanziari) non siano una scienza esatta è cosa risaputa.
Peraltro, si rimane sempre un po’ sorpresi quando (con una certa frequenza, a dire il vero, negli ultimi anni) ne abbiamo la conferma.
Venerdì scorso ben 9 indici azionari, in giro per il mondo, hanno toccato nuovi massimi. Certamente è probabile che interessi a pochi apprendere che la borsa di Karachi (Pakistan) abbia toccato i massimi di sempre. Già parlando di Norvegia (il suo Fondo Sovrano è tra i più potenti al mondo) e di Svezia (proprio la settimana scorsa la Banca Centrale ha tagliato i tassi, portandoli al 3,75%) qualche curiosità è lecito aspettarsela. Il Canada, quasi certamente, si può dire che tragga beneficio dal “traino” degli USA. Ma è parlando di Europa che lo stupore diventa ancora più sorprendente.
Tutti sappiamo come l’economia tedesca, in questi ultimi 18-24 mesi, abbia sofferto in modo particolare (oltre alle problematiche “comuni”, a pesare in modo decisivo su quell’economia è stato il conflitto ucraino, in considerazione degli stretti legami economici che, a partire dal cancelliere Schroeder – che la stessa Merkel, peraltro, aveva ulteriormente rafforzato – con la Russia). Eppure il Dax è tra gli indici che hanno toccato “terreni sconosciuti” (insieme al CAC 40 di Parigi – effetto Olimpiadi? – e all’Aex di Amsterdam). Visto il suo “peso” sugli indici europei, ha “spinto” l’Euro Stoxx e lo Stoxx Europe 600 (che riunisce la maggiore 600 società quotate in Europa) verso nuovi record. Ed ecco che so arriva a quota 9.
La liquidità, come ormai tutti abbiamo imparato, è uno dei contributori più grandi (forse il più grande) alla crescita delle quotazioni, favorendo la “predisposizione” al rischio. Ma da 2 anni a questa parte il messaggio che alcune Banche Centrali hanno iniziato a dare (peraltro avvalorato dai fatti) è che la liquidità è, mese dopo mese, in diminuzione, attuando quello che è universalmente conosciuto come quantitative tightening (l’opposto del quantitative easing): la FED ha ridotto il proprio bilancio di $ 1.600, passando da $ 9.000 MD a $ 7.400 MD, seguita dalla BCE, che lo ha tagliato di € 8.500 MD a € 7.000 MD. Eppure gli indici hanno continuato a crescere, in maniera anche piuttosto “spavalda” verrebbe da dire). Allora è vero tutto e il contrario di tutto?
Le cose, ad una lettura più attenta, non stanno propriamente così, anche se, come detto, è indubbio che non esiste la “formula esatta”.
Partiamo dalla liquidità. Vero che le 2 Banche Centrali più forti (almeno sui mercati sviluppati) hanno diminuito, e non di poco, i propri bilanci. Ma altre, in compenso, li hanno aumentati. E’ il caso del Giappone (solo il mese scorso la Bank of Japan, peraltro in percentuali minimali, ha inasprito le condizioni di mercato) e, soprattutto, della People Bank of China (la Cina non è ancora riuscita a riprendersi dallo shock del Covid), che hanno, invece, “allargato” la base monetaria.
C’è, poi, la questione degli utili. Ogni trimestre migliaia di aziende (principalmente americane) “inondano” i mercati di dati che stanno ad indicarne l’andamento. E quello degli utili è uno dei più importanti: dal loro valore dipende, infatti, il p/e, l’indicatore forse più utilizzato per capire se un’azienda è profittevole o meno e se, di conseguenza, è conveniente investire su di lei. E gli utili, in questi ultimi trimestri, non hanno praticamente mai deluso investitori e analisti: vuoi perché le aziende, nelle loro stime, sono sempre piuttosto prudenti, vuoi perché la tanta temuta recessione ha pensato bene di “girare al largo”, limitandosi, in Europa, a qualche “temporale sparso”.
Ma forse ciò che più di ogni altra cosa ha sostenuto i mercati sono stati i “buyback”, vale a dire il riacquisto, da parte delle società quotate, delle loro azioni: di fatto una sorta di quantitative easing, sostenuto, però, non dalle Banche Centrali ma dalle aziende stesse.
Molteplici i risvolti positivi di quella che ormai è diventata sostanzialmente una “prassi”.
Per prima cosa, così facendo, si riduce il numero delle azioni in circolazione. Subentra, quindi, una sorta di effetto “scarsità”: se gli aumenti di capitale aumentano il loro numero, il riacquisto, come ovvio, lo diminuiscono.
Così facendo, si produce un altro, immediato, effetto: anche a parità di utili, il p/e per azione non può che salire, diminuendo il “denominatore”. Una sorta di “window dressing”, che rende, in prima battuta, più appariscenti i risultati aziendali.
C’è poi un aspetto più tecnico, legato alla fiscalità. Se i dividendi vengono tassati al momento del loro percepimento, la tassazione delle plus sulle azioni si attua al momento della loro vendita, e quindi, molto spesso, dopo un po’ di tempo.
C’è poi un tema di carattere più emotivo: se un’azienda ricompra le proprie azioni, ciò significa che ritiene che il loro valore, nel tempo, è destinato a crescere. “Comunica”, quindi, agli investitori una messaggio positivo: se noi siamo i primi a credere nelle nostre potenzialità (chi investirebbe sui propri titoli se fosse convinto che il loro valore è destinato a scendere….), perché non dovreste farlo anche voi.
Fatto sta che Apple, per esempio, ha recuperato il 7% da quando ha comunicato un piano di riacquisto da $ 110 MD (il più grande di sempre per una società quotata). Per non essere da meno, Alphabet (la “madre” di Google) ha “messo lì” $ 70 MD, mentre Meta ha optato per $ 50 MD. Si stima che, per quest’anno, solo lo S&P 500 arriverà a circa $ 950 MD, sfiorando la soglia dei $ 1.000 MD (obiettivo che quasi sicuramente verrà “sfondato” l’anno prossimo.
E se a tutto questo aggiungiamo che si avvicina sempre di più il taglio dei tassi (più prima che poi in Europa, più “poi” che prima negli Usa), ecco che il “puzle” si compone con maggior chiarezza…
Almeno in Asia la settimana si apre senza nuovi record, anche se qualche indici continua a lanciare segnali di forza.
E’ il caso dell’Hang Seng di Hong Kong, che sale dello 0,45%, toccando i massimi da 9 mesi.
Appena debole il Nikkei (– 0,13%), mentre Shanghai al momento fa segnare – 0,40%, alla vigilia dell’inizio del collocamento di circa $ 138 MD (da qui a novembre) di titoli obbligazionari da parte della Banca Centrale.
Positiva, invece, la borsa di Taiwan.
Deboli Seul, Sidney e, in apertura”, Mumbai, tutte con cali tra lo 0,m4 e lo 0,8%.
Leggero passo indietro del petrolio, con il WTI che viene scambiato a $ 78,17 (- 0,23%).
Gas naturale a $ 2,253, stabile.
In arretramento l’oro, a $ 2.358, – 0,79%.
Spread a 132,2, con il BTP a 3,85%.
Bund 2,51%.
Treasury appena sotto il 4,50% (4,49).
€/$ stabile a 1,0773.
Bitcoin sempre “nell’anonimato”, con le quotazioni che non si spostano da $ 61.200 (61.230).
Ps: si continua a parlare di parità di genere. Ma, per quel che riguarda l’occupazione, il divario tra uomo e donna, nel nostro Paese, rimane a livelli incolmabili, a partire dal numero di dipendenti (9,7 ML gli uomini, 7,2 ML le donne). Non lavorano, restringendo il campo alle motivazioni famigliari, 3,3 ML di donne, mentre gli uomini si limitano a 152.000. Ma ciò che forse colpisce maggiormente è il “gap” relativo alla retribuzione media: € 26.227 quella maschile, € 18.305 quella femminile. L’equivalente del 30,2% in meno.