Il parallelismo tra l’andamento della valuta giapponese e l’indice Nikkei (mentre quest’ultima è ai massimi dal 1989, lo yen si trova esattamente, rispetto al $, in una situazione opposta, essendo ai minimi dal 1990) ci conferma come i mercati finanziari siano il risultato di molteplici fattori.
Per un Paese votato all’export come il Paese del Sol Levante, il valore del cambio della propria valuta è un aspetto fondamentale: rispetto ai massimi (sempre verso $) fatto segnare a novembre 2011, oggi siamo esattamente alla metà. Senza contare il fatto che, in tutti questi anni, l’inflazione, a Tokyo e dintorni, è stata pressochè nulla (al punto che la Bank of Japan solo la settimana scorsa ha portato i tassi nella forchetta 0 – 0,10%, dopo anni di tassi negativi): è come se un cittadino americano oggi, con gli stessi soldi del 2011, si comprasse 2 macchine o qualsiasi altro bene esportato al prezzo di 1 (o andasse a fare un viaggio a Tokyo spendendo la metà di quanto avrebbe speso all’epoca).
Se la valuta è un “misuratore” della forza economica di un Paese, dovremmo dire che quella giapponese è un’economia, se non a pezzi, quasi. Se, invece, guardassimo al valore delle aziende quotate, con l’indice di borsa tornato ai massimi, la conclusione dovrebbe essere esattamente il contrario.
Indubbiamente il Giappone è un Paese in cui le contraddizioni sono quotidiane. Lo si può capire osservando gli stessi stili di vita della popolazione: da una parte persistono tradizioni millenarie (si pensi, per esempio, al “culto” verso la dinastia reale, ritenuta una discendenza divina), dall’altro è un Paese modernissimo, con tecnologie e servizi all’avanguardia. Un Paese, riducendo lo sguardo all’economia, dominato per circa 30 anni dalla deflazione, con prezzi stabili, se non in calo, e consumi che non sono cresciuti. Dove il debito pubblico percentualmente è tra i più alti, se non il più alto, al mondo, con un livello, rispetto al PIL, insostenibile probabilmente per qualsiasi altro Stato (vicino al 250%). Dove la Banca Centrale da anni sostiene una politica espansiva (al punto che oggi, dopo il primo aumento dei tassi dopo anni, siamo, come detto, ad un livello interno allo zero). E in cui l’inflazione si trova, oggi, intorno al 2,6%, un livello per loro altissimo (il picco, negli ultimi 35 anni, è stato toccato nel 1991, quando è arrivata al 4%).
E’ chiaro che la debolezza del cambio, se da una parte favorisce, almeno in parte, l’economia, con l’aumento dell’export, dall’altra qualche problema lo crea. Basti pensare, per es, all’inflazione: un Paese privo di risorse energetiche (le rinnovabili rappresentano una quota modesta (si prevede che possano raggiungere circa il 35% del fabbisogno nazionale nel 2030) e il nucleare praticamente scomparso dopo il disastro di Fukushima del 2011 (anche se, nei piani del Governo, si dovrebbe tornare, sempre entro il 2030, ad una quota vicina al 20% dell’energia prodotta), è costretto (pensiamo all’Italia) gran parte delle risorse energetiche. E quindi ad “importare” inflazione, laddove, come nel caso giapponese, la valuta persistesse su valori molto bassi.
Da qui le preoccupazioni governative e delle autorità monetarie. E’ molto probabile, quindi, che nelle prossime settimane assisteremo ad interventi “mirati” a sostegno del cambio (vedi, tipico “caso di scuola”, l’aumento dei tassi messo in atto dalla BoJ, che non dovrebbe limitarsi a quello osservato la settimana scorsa). Potrebbe attenuarsi, di conseguenza, la “corsa” dell’indice Nikkei, iniziata a marzo del 2020, quando valeva 16.552 punti (oggi siamo a 40.168 punti, pari a quasi il + 150%, con un’accelerazione formidabile da 12 mesi a questa parte, con un rialzo del 50%), rispecchiando in modo più fedele l’effettivo valore delle aziende giapponesi e l’andamento dell’economia locale.
Si chiude, con oggi, di fatto, il mese borsistico di marzo, con l’inizio delle vacanze pasquali.
L’indice Nikkei perde circa l’1,18%, appesantito dallo stacco dei dividendi, mentre lo yen persiste sui minimi.
Reagiscono, invece, le borse cinesi, con l’Hang Seng di Hong Kong che sale dell’1,05% e Shanghai che fa + 0,60%.
Si indebolisce il Kospi di Seul, in arretramento dello 0,2%.
Riparte il petrolio, con il WTI a $ 81,88 (+ 0,54%).
Gas naturale Usa a $ 1,711 (- 0,58%).
Sempre più in alto l’oro, che questa mattina “luccica” dall’alto di $ 2.217 (+ 0,14%).
Leggermente debole lo spread, a 131,5 bp.
Rendimento dei BTP a 3,60%.
Scende anche il rendimento del bund, al 2,29%, che “attutisce” il rialzo, seppur marginale, dello spread.
Treasury a 4,21%.
In rafforzamento il $, con l’€/$ a 1,0806.
In altalena il bitcoin: dopo una discesa, nella notte, verso i $ 68.000, in questi minuti lo troviamo già oltre i $ 71.000 (71.220).
Ps: clamoroso. Questa volta non “al Cibali” (i meno giovani, e appassionati di calcio, ricorderanno la celebre locuzione, pare pronunciata da Sandro Ciotti, radiocronista RAI – all’epoca la trasmissione radiofonica più in voga, per seguire le partite, tutte di domenica pomeriggio, era Tutto il calcio minuto per minuto – in occasione della partita Catania-Inter, una sorta di Davide vs Golia, vinta, appunto, dalla squadra sicula), ma sui cieli d’Italia. Pare, infatti (almeno guardando i numeri che sono stati comunicati) che ITA, la compagnia che ha preso il posto di Alitalia, abbia raggiunto, al 31/12/23, il pareggio di bilancio, addirittura in anticipo di 1 anno rispetto agli obiettivi, e, soprattutto, abbia € 450 ML in cassa (ben 158 in più rispetto alle previsioni), con un aumento del 47% dei passeggeri trasportati (15 ML) a fine 2023 verso il 2022, e con ricavi, sempre nel periodo, a 2,2 MD (+ 67%).