I dati sull’inflazione italiana resi noti nel fine settimana dall’Istat ci danno una rappresentazione che fa sembrare una volta di più eccessive le preoccupazioni delle Banche Centrali e di molti organismi monetari. Vero che l’Italia oggi non è certo un “benchmark” rispetto alle economie mondiali (se ci limitiamo a “pesare” il nostro listino di borsa non arriviamo all’1% della capitalizzazione globale), ma siamo comunque tra le prime 4 economie europee e un membro del G7 (da cui è ancora esclusa la Cina). A fine febbraio, infatti, l’inflazione media era, nel nostro Paese, allo 0,8% su base annua, il livello più basso a tra i Paesi membri. E il “carrello della spesa”, vale a dire il paniere che comprende gli alimentari e i beni per la cura della casa e della persona, sempre a fine febbraio era al 3,4%, dal precedente 5,1% di gennaio e dal 10% di soli 6 mesi fa.
Difficile ricordare una fase in cui i prezzi siano scesi così velocemente. Merito, senza dubbio, delle “ferree” politiche monetarie messe in atto dalla BCE (un po’ come da tutte le Banche Centrali), ma anche di una serie di concomitanze. In primo luogo la forte discesa dei prezzi energetici, che a febbraio sono calati di oltre il 17% (tra questi non il petrolio, che, seppur non sia cresciuto – va detto che in altri momenti, in presenza di una crisi geopolitica grave come quella attualmente in atto in medio oriente lo scenario sarebbe stato ben diverso – non ha certo seguito l’andamento del gas). Ma la discesa ha interessato un po’ tutti i settori, dai prodotti alimentari a quello dei trasporti ai servizi culturali nonché a quelli per la casa. Ad oggi l’inflazione “acquisita” per il 2024, vale a dire quella che faremo registrare entro la fine dell’anno se da qui in avanti i prezzi rimanessero fermi, sarebbe pari allo 0,5%, una percentuale che fa sembrare assolutamente, viste anche le dinamiche di cui sopra, alla ns portata il “tetto” del 2.5/2,7% posto dalla BCE per l’anno in corso. Anzi, è molto probabile che l’Italia possa rimanere ben al di sotto di quel livello.
Forse anche per questo la decisione della Banca Centrale europea di non toccare, almeno per il momento, i tassi, inizia a sembrare, non solo alle cosi dette “colombe” (vengono così definiti i sostenitori di politiche monetarie espansive), un po’ “forzata”, in considerazione anche della “stanchezza” che da qualche tempo l’economia europea inizia a far intravedere. Il rischio, come più volte ricordato, è che la paura di anticipare il taglio possa provocare un “danno” maggiore rispetto a quello che potrebbe derivare da un (timido) rialzo dei prezzi.
Anche perché, nel frattempo, gli spread qualche segnale lo stanno dando. Il nostro venerdì era a 126 bp, il livello più basso da più di 2 anni a questa parte (comunque siamo ancora, e piuttosto nettamente, il Pase che “più paga” in Europa). Il nostro BTP, infatti, ha un rendimento intorno al 3,69%, dato dalla sommatoria del rendimento del bund tedesco (che, invece, da inizio anno è salito, a conferma di uno stato di salute non tra i migliori), al 2,43%, e il nostro spread. Il che porta il “rendimento reale” al 2,89% (la differenza tra il rendimento del decennale e l’inflazione media dello 0,8%). L’economia (più della finanza) non è solo una “somma algebrica”, ma appare evidente che ci si trovi di fronte ad un’anomalia. E’ probabile, quindi, che, con un certo automatismo, dettato anche dalle attese di un prossimo taglio dei tassi (sempre più insistenti le voci che giugno possa essere lo “spartiacque”), i tassi si portino a livelli più bassi.
Qualche indicazione potremmo averla in settimana: infatti, sono previste le riunioni delle principali Banche Centrali (ad esclusione della BCE), dalla Bank of Japan (che potrebbe, invece, andare contro corrente, essendo quel Paese praticamente l’unico al mondo che ha ancora tassi negativi, al – 0,1%), alla FED (è certo che i tassi rimarranno fermi, mentre potrebbe essere di grande interesse comprendere la lettura che Powell darà all’andamento dell’economia del Paese), alla Banca Nazionale Svizzera per arrivare alla Bank of England.
Sul fronte dei mercati azionari, va segnalata la svolta in corso sui mercati cinesi.
Dopo un avvio di anno piuttosto deludente, sulla falsariga degli ultimi 2 anni, da poco più di un mese è iniziato un recupero che, giorno dopo giorno, si sta facendo più evidente, che ha portato i listini in territorio positivi (al – 9% da inizio anno ai primi di febbraio, ha fatto seguito un + 12% dalla metà di febbraio ad oggi). A promuovere la svolta indubbiamente è stato determinante l’intervento pubblico: alcune analisi, infatti, dicono che lo Stato sia intervenuto con forza, immettendo sul mercato almeno $ 57 MD per acquistare ETF che investono sugli indici di borsa del Paese. Una scelta che si accompagna alla decisione della Banca Centrale di abbassare i requisiti sulle riserve monetarie delle Banche. Interventi che si accompagnano al fatto che forse mai come oggi il listino cinese è stato così conveniente, con delle valutazioni che gli esperti ritengono molto interessanti, al punto che sono in tanti che sostengono che la Borsa cinese sia sottovalutata, con un rapporto tra i prezzi delle azioni e il loro “book-value” appena sopra l’1.
Inizio settimana “scoppiettante” per i mercati asiatici.
Fa notizia il + 2,67% del Nikkei giapponese, sulle attese di un rialzo dei tassi da parte della Bank of Japan.
Salgono anche gli indici “Great China”, con Shanghai che fa segnare + 0,5%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng fa + 0,20%.
Tutti in rialzo i futures, con indicazioni quindi positivi sulle aperture di giornata.
Petrolio ancora in crescita, con il WTI ai massimi degli ultimi quattro mesi ($ 81,5).
Rimbalzo del gas naturale Usa (+ 4,65%), a $ 1,736.
Continua il ritracciamento dell’oro (- 0,46%, $ 2.153).
Spread a 124,3, per un BTP sempre vicino al 3,70%.
Bund al 2,44%.
Treasury 4,30%.
Leggera ripresa per l’€, a 1,089 vso $.
Fase di calma per il Bitcoin, a $ 68.625, in calo, questa mattina, dell’1% circa.
Ps: si è detto più volte del declino demografico del nostro Paese, con la popolazione in continuo calo e con un invecchiamento che sembra irreversibile. Ma alcuni numeri ce ne danno ulteriore consapevolezza. Scopriamo, quindi, che circa il 50% dei comuni italiani (per l’esattezza il 49,3%) ha una variazione negativa nel numero degli abitanti, con una punta che arriva addirittura all’89,3% per i comuni della Basilicata. Invece il Molise si contraddistingue per il più alto numero di comuni con una forte presenza di anziani (il 51,5%, contro una media italiana del 19,8%). Senza dubbio la transizione energetica, a livello globale, è “il” vero problema da affrontare: ma qui da noi senz’altro non è l’unico.