Nell’intraday di ieri, il nostro spread è sceso sino a toccare i 116 bp, un livello che non si vedeva dai tempi del Governo Draghi, per poi risalire, sino a chiudere a 127 bp.
Se lo spread è il “barometro” dello stato di salute di un Paese (dove per “stato si salute” si prendono in considerazione diversi fattori, da quelli puramente economico-finanziari a quelli più “politici”, come la stabilità del Governo), l’Italia sembrerebbe in uno “stato di forma” più che buono. A ben guardare, in realtà, qualche dubbio è più che comprensibile: il nostro debito oramai è ad un passo dai 3.000 MD, il rapporto debito/PIL, per quanto, dopo le ultime misurazioni dell’Istat, è sceso dal 141% a poco più del 137%, rimane pur sempre ad un livello più che preoccupante e, quel che più conta, nei prossimi anni farà molta fatica a scendere, il deficit permane sopra il 5%, livello ben superiore al 3% previsto dal Patto di stabilità appena ridiscusso, la crescita continua con il “freno a mano tirato”, inchiodata com’è attorno ad un modesto 0,6/0,7%.
Eppure continua a nella sua china discendente, al punto che il Financial Times, tra le più note e prestigiose testate giornalistiche al mondo, ha pubblicato un articolo in cui evidenzia i risultati ottenuti, soprattutto negli ultimi mesi, dall’economia italiana, in cui viene altresì sottolineata la crescente fiducia dei mercati nei confronti dell’Italia.
A dire il vero, la diminuzione dello spread non riguarda solo il nostro Paese, ma un po’ tutta l’Area Euro: in Francia lo troviamo a 44,5 bp, in Spagna a 80, Portogallo 62,3, Austria 46,7, Irlanda 38. La stessa Grecia, oggi, “paga” un differenziale, verso la Germania, molto inferiore al nostro, intorno agli 80 punti, quindi sullo stesso livello della Spagna.
Come noto, lo spread è il differenziale tra quanto “pagano” i titoli governativi dei vari Paesi presi in osservazione e il bund tedesco, tradizionalmente considerato il “porto sicuro” per eccellenza. Le variazioni, quindi, in realtà non dipendono solo dallo stato in cui si trova ogni singola economia, ma, evidentemente, anche quella tedesca. Se gli spread scendono ovunque, quindi, il merito non va iscritto solo ai Paesi che vedono diminuire il differenziale, ma anche al Paese “benchmark”. Il restringimento di questi mesi, pertanto, in primo luogo non è altro che la conferma della crisi in cui si trova la principale potenza europea, certificata da una recessione tecnica e da un Governo forse mai così debole come in questi mesi, con una crescita stimata, per il 2024, di appena lo 0,4%, quindi inferiore alla media europea.
L’altro fattore “comune” è la discesa dei tassi, con il 70% di probabilità assegnate ad un primo taglio a giugno. Tassi più bassi significano minori oneri finanziari, con un costo per interessi sul debito inferiore, con un impatto evidentemente superiore per i Paesi con il debito più grande (e quindi il nostro Paese, dove l’anno scorso aveva raggiunto un costo medio del 3,76%).
Subentrano, poi, le motivazioni “regionali”. Il grande successo ottenuto dall’ultimo collocamento del BTP Valore è una sorta di “profezia che si autodetermina”: il record di sottoscrizioni è la conferma della fiducia delle famiglie italiane non solo verso questo strumento finanziario, ma anche, in senso più ampio, per il nostro Paese, producendo una sorta di “contagio”. E la fiducia è uno dei fattori più importanti per determinare il valore dello spread.
Non va poi dimenticato il “fattore liquidità”: sui conti delle famiglie italiane (ma non solo quelle italiane) è presente una cifra enorme, stimata in non meno di € 1.300 MD. Una liquidità che, almeno in parte, va alla ricerca di “rendimento”, comunque abbinato alla “sicurezza”: l’identikit del BTP (almeno sulle durate medio-corte, tra cui rientrava il BTP Valore), “ricercato” anche da investitori stranieri, essendo quello che offre il “premio” maggiore. In abbinata al fatto che, comunque, gli investitori sono in una fase “risk on”, e quindi con una maggior predisposizione all’assunzione di rischio.
Soprattutto laddove, come è il caso dell’Italia, l’ìnflazione si trova oggi a valori molto bassi (siamo ben sotto l’1%), assicurando, quindi, un “tasso reale” piuttosto positivo.
Insomma, il raggiungimento dei minimi del 2021, quando il Governo Draghi muoveva i primi passi, non è più un miraggio: la strada che ci separa da quello 0,72% appare oggi un po’ meno tortuosa, anche se senz’altro non sarà brevissima (anche perché non bisogna dimenticare che, in quello stesso periodo, il mondo era nel pieno dei tassi negativi, epoca che molto difficilmente potremo rivedere).
Chiusure leggermente negative ieri sera a Wall Street, con gli indici in calo di uno 0,30% medio.
Questa mattina spicca, sui mercati asiatici, Shanghai, che si appresta a chiudere la settimana con un rialzo dello 0,54%.
Deboli il Nikkei di Tokyo (- 0,26%) e, a Hong Kong, l’Hang Seng, con un più pesante – 1,56% (comunque la settimana si chiude con un rialzo di quasi 2 punti).
Futures questa mattina positivi in Europa, mentre sembrano più contrastati a Wall Street.
Ieri giornata di rafforzamento per il petrolio, con il WTI che ha superato gli 80$, anche se questa mattina è in calo dello 0,34% ($ 81,07).
Gas naturale americano $ 1,753 (+ 0,46%).
Oro stabile a $ 2.172.
Spread a 126,4, per un BTP al 3,69%.
Bund 2,42%.
Treasury al 4,28%, in rialzo di circa 10 bp.
In rafforzamento il $, a 1,0883.
Dopo il record di ieri, quando è arrivato a toccare i $ 74.500, battuta d’arresto per il bitcoin, arretrato a $ 68.500.
Ps: oggi sono le “idi di marzo”, cioè il 15 marzo. Una data che ha fatto la storia. Era, infatti, il 15 marzo del 44 a.C. quando un gruppo di senatori accoltellò a morte Cesare. Forse l’omicidio politico più famoso al mondo, al punto che ne parlò anche Dante nella Divina Commedia, relegando all’Inferno Bruto e Cassio, i cospiratori più famosi.