Va bene avere una visione positiva e ottimistica della vita e del mondo nel suo insieme, ma rincorrere ogni giorno buone notizie sarebbe piuttosto utopistico, allontanandoci dalla realtà.
Peraltro, ci sono fasi in cui anche le notizie “neutre” possono diventare “buone notizie”, come, viceversa, ce ne sono altre in cui, al contrario, diventano “cattive notizie”. La differenza, evidentemente, non sta tanto nell’ordine delle cose, ma dalla “predisposizione” con cui approcciamo la quotidianità. Un po’ quello che sta succedendo dalla fine di ottobre, almeno per quanto riguarda le vicende finanziarie.
In questo mese e mezzo, a ben guardare, non sono accaduti fatti così straordinari tali da modificare le nostre vite.
A livello geo-politico le guerre continuano: se è vero che, soprattutto in Medio Oriente, il “fuoco” non è divampato, è altresì vero che, per il momento, non si intravedono spiragli che fanno sperare, nel breve, ad una pace. Proprio in queste ore, Zelensky è negli USA, con l’obiettivo di “portare a casa” nuovi aiuti (circa $ 60 MD), impresa non facile vista l’opposizione Repubblicana. Ma a Washington si sta giocando anche un’altra partita, con Biden che ha attaccato in maniera “frontale” il Premier Netanyahu, invitandolo, senza troppi giri di parole, a modificare il suo approccio nei confronti dei palestinesi ovvero a cambiare governo. Un vero proprio avvertimento, che sa tanto di “ultimatum”: che i rapporti tra Biden e il premier israeliano non fossero buoni era cosa nota, ma la “sconfessione” da parte del Presidente USA sembra un segnale piuttosto chiaro, non solo nei confronti di Israele (che non può permettersi di perdere il rapporto “privilegiato” che, da sempre, ha con gli Stati Uniti) ma anche verso il mondo arabo. Ucraina da una parte, Israele dall’altra, con un occhio a Taiwan: una sequenza che vuole confermare il ruolo “centrale” degli USA nell’equilibrio mondiale.
Sul fronte economico, i dati americani di ieri ci dicono che l’inflazione continua a scendere, ma lo fa con maggior fatica. Rispetto al 3,2% di ottobre, è passata al 3,1%,mentre quella “core”, al netto delle componenti più volatili, è rimasta inchiodata al 4%. il dato assume una maggiore importanza in relazione al fatto che oggi la FED è chiamata a decidere il da farsi sui tassi: l’opinione più accreditata è che le cose rimangano ferme, con Powell che, peraltro, continuerà a dirci che le cose stanno andando nella direzione giusta, ma che non bisogna abbassare la guardia e che la FED è sempre pronta ad intervenire
A livello europeo, le dichiarazioni quasi “bellicose” della nostra premier sono una sorta di “avviso ai naviganti”. Probabile che avvertendo una certa “pressione” da parte della Commissione Europea perché si arrivi ad una definizione in tempi rapidi sul Patto di stabilità e, ancor di più, per quanto ci riguarda, sul MES, la mossa sembra quella di un pugile che, messo nell’angolo dall’avversario, cerca di uscirne, non limitandosi, quindi, a difendersi, ma contrattaccando. Quasi si sentisse “circondata”, complice la notizia, che circola con sempre maggiore insistenza nelle capitali europee, di una candidatura di Draghi come Presidente della Commissione Europea (per quanto il diretto interessato abbia prontamente smentito, dicendosi non disponibile).
Eppure i mercati si muovono come se “the picture” fosse ormai ben definita: inflazione ormai prossima a toccare il tanto auspicato “target”, tassi al picco (pivot), e quindi sempre più vicini all’inversione, soft-landing e “non” recessione, contenimento dei conflitti, UE che trova un accordo sui temi ancora in discussione. Un approccio, quindi, “risk on”, che spinge al rialzo le quotazioni dei titoli azionari (non a caso ieri Wall Street ha segnato nuovi massimi) ed i valori dei titoli obbligazionari, con rendimenti ancora in diminuzione, anche se a ritmi (giustamente) inferiori rispetto alle ultime settimane Certo, sono passati i tempi (non così lontani) di “Tina” (il famoso acronimo there is no alternative), con cui si identificava l’investimento azionario nell’unica via per ottenere rendimento da un investimento: oggi anche un Bund tedesco remunera intorno al 2,20 (era arrivato anche al 3%), quando non più tardi di circa 22 mesi fa aveva un rendimento negativo pari al – 0,60%. Per non parlare dei nostri BTP o di molti titoli obbligazionari High Yeld, vale a dire quelli con rating più bassi. E con un’inflazione tra il 2 e il 3% ecco che i rendimenti “reali” stanno tornando positivi.
Dopo i nuovi record americani, questa mattina i mercati asiatici si muovono in maniera difforme.
Ancora positivo, a Tokyo, il Nikkei, a + 0,25%.
Meno bene Shanghai e, a Hong Kong, l’Hang Seng, entrambi in calo dell’1,15%.
Futures appena positivi a New York e in Europa, con variazioni dello zero virgola.
Nuovo scivolone per il petrolio, con il WTI sceso sotto i $ 70 (- 0,76% anche questa mattina), spinto dalla paura di un calo dell’economia e dal clima non particolarmente rigido in molti Paesi.
Sorte analoga per il gas naturale Usa, scambiato a $ 2,268 (- 1,99%).
Oro di nuovo sotto i $ 2.000 (1.990), – 0,16%.
Spread a 175 bp.
BTP al 4%.
Bund 2,22%.
Treasury Usa al 4,20%.
Sempre “ingessato” l’€/$, a 1,0782.
Bitcoin ancora in ritirata, ad un passo dai $ 41.000 (41.074).
Ps: si è insediato, tre giorni fa, Javier Milei, il nuovo Presidente dell’Argentina, il cui compito per risollevare le sorti del Paese ha sempre più il volto di una “mission impossible”. L’inflazione è arrivata a toccare il 142%, con un aumento dei prezzi, soltanto nel mese di dicembre, di oltre il 40% sulle voci di una prossima svalutazione della moneta. Una parabola, quella del Paese sudamericano, che sembra non finire mai. Intanto il nuovo Governo ha preso forma, composto da soli 8 ministri, forse il Governo “più corto” che si conosca (tanto per fare un esempio, il nostro ne prevede 15). Rimane da capire se tutti abbiano le competenze adeguate per affrontare una situazione che è ben più che problematica.