Henry Kissinger, uno dei più grandi (e controversi) diplomatici che si ricordi, scomparso qualche giorno fa all’età di 100 anni, era noto, tra le altre cose, per la sua teoria dei “piccoli passi”: laddove le distanze tra i Paesi era notevole, arrivare in fretta ad un accordo era altamente improbabile e, nel caso in cui fosse stato raggiunto, sarebbe stato, probabilmente, di breve durata. Un modo diverso per dire che i “grandi problemi” richiedono “grandi soluzioni”, che, il più delle volte, comportano negoziati difficili, lunghi, nervosi.
Verrebbe da dire quello che sta succedendo, a livello UE, sul Patto di stabilità. L’8 dicembre, da tutti indicato come il termine ultimo per arrivare ad un compromesso degno di questo nome, è passato, e all’orizzonte, per il momento, non si vedono “fumate bianche”. Come usanza, tutti si affrettano a dire che l’accordo è vicino, che i passi avanti sono stati significativi, che oramai siamo ai dettagli: la verità, però, è sotto gli occhi di tutti e, purtroppo, è una verità amara. Ancora una volta l’Europa, come ricordava ancora ieri l’ex Presidente del Consiglio Mario Monti, “è ferma al passato”, incapace di quel cambio di passo di cui tutti parlano, ma che nessuno, al momento, è in grado di mettere in pratica (non a caso, in questi giorni, si fa un gran parlare della candidatura di Mario Draghi – ma guarda un po’…. – come Commissario UE in sostituzione di Ursula von der Leyen, ormai in scadenza di mandato, nella primavera prossima). La grande differenza, rispetto ai negoziati a cui era abituato il famoso ex Segretario di Stato Usa, che riguardavano Paesi tra loro spesso nemici, qui si parla di 27 Paesi che hanno firmato un accordo comune per un progetto comune e che, quindi, dovrebbero avere un progetto comune.
Tra i principali “oppositori” alla bozza di accordo che la Spagna ha presentato (molto si è parlato, settimana scorsa, di una proposta comune di Francia e Germania, il cui esito, evidentemente, non è stato, per il momento, quello sperato) troviamo il nostro Paese. E’ noto come il nostro debito pubblico sia tra i più alti in Europa, sia in termini assoluti – quasi € 3.000 MD, superato per qualche centinaio di miliardi da quello tedesco, la cui economia, però, vale la pena di ricordare, vale circa 3.8 MD, circa il doppio di quella italiana, sia in termini percentuali (140%), superati dalla Grecia, intorno al 165%. Un braccio di ferro forse non casuale: oltre al patto di stabilità, infatti, un altro grande tema è sul tavolo. Siamo l’unico Paese a non aver ratificato il MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, un atteggiamento che penalizza l’intera UE: senza un accordo “plenario”, infatti, il Meccanismo non può essere considerato valido. Cosa che, evidentemente, comincia ad indispettire non poco molti degli Stati membri.
Ci si domanda, quindi, se il nostro modo di negoziare sia quello corretto, in considerazione della “debolezza” dei conti che ci contraddistingue: oltre al debito pubblico “esagerato”, abbiamo un deficit che stazionerà, anche per il 2024, ben oltre la soglia del 3% prevista dal Patto di stabilità. E, se guardiamo alle emissioni che ci aspettano l’anno prossimo per finanziare le molte voci di spesa previste nella finanziaria, vediamo che arriveremo, solo per quanto riguarda quelle a medio-lungo termine, a circa € 400 MD, di cui € 265 MD come rinnovi, a cui se ne dovranno aggiungere circa 135 MD di nuove. Senza contare i titoli a “breve termine” (BOT), le cui emissioni, quest’anno, sono state pari a circa € 150 MD.
Il pensiero, peraltro, corre, ancora una volta, alla BCE. Non tanto (o meglio, non in principal modo) al tema “tassi”, visto che oramai la convinzione è che si sia arrivati al pivot, e quindi più vicini ad un’inversione di tendenza che non ad un nuovo ritocco verso l’alto, quanto al fatto che la Banca Centrale non “rinnoverà” i titoli che arriveranno a scadenza (un totale, nel 2024, che dovrebbe avvicinarsi a € 240 MD – a livello europeo – contro i 140 di quest’anno), con un’offerta “netta” che, sempre a livello europeo, dovrebbe superare i 640 MD, di cui, buona parte, come visto, di “ nostra” competenza. Una situazione che, pertanto, potrebbe certamente non agevolare il compito del nostro Tesoro, con il “prezzo” (lo spread) che potrebbe risentirne, vanificando, almeno in parte, il probabile ribasso dei tassi, previsto a partire dalla tarda primavera.
Tutti buoni motivi per non “alzare troppo la voce”, con il rischio di trovarsi sempre più isolati in Europa.
Avvio di settimana contrastato sulle coste del Pacifico.
A Tokyo il Nikkei si appresta a chiudere in rialzo dell’1,4%, favorito dall’indebolimento dello yen.
Bene anche Shanghai, che sul finale di seduta non solo recupera le perdite iniziali, ma si porta a + 0,66%. Ancora in diminuzione i prezzi al consumo, a conferma di una situazione di “deflazione”.
In territorio negativo, invece, a Hong Kong, l’Hang Seng, in calo di circa l’1%.
Andamento piatto, al momento, per i futures, frazionalmente negativi a Wall Strett e positivi, invece, in Europa.
In ripresa il petrolio, con il WTI che recupera i $ 72 (72,50, + 2,6%).
In calo (- 1,3%) il gas naturale Usa.
Torna sotto i $ 2.000 l’oro ($ 1.997), dopo i recenti record.
Spread a 175,5, con il rendimento del BTP a 4,05%.
Bund a 2,28%.
Treasury a 4,25%, in rialzo di circa 10 bp rispetto alla chiusura di venerdì.
Si interrompe la striscia di rialzi per il bitcoin: questa mattina lo troviamo a $ 42.122, lontano dai massimi di periodo toccati la settimana scorsa ($ 44.000).
Ps: è annosa la discussione, per il calcio, su chi sia stato (o sia) il più “grande” di sempre: Di Stefano, Pelè, Maradona, Messi. Ma anche nel basket la scelta non è semplice: Michael Jordan, Kareem Abdul-Jabbar, Magic Johnson, Oscar Robertson, e tanti altri. Ma ce n’è uno che, alla soglia dei 40 anni (ne ha 39) continua a vincere e a stupire. E quindi si candida ad esserlo: LeBron James, infatti, ha vinto con i LA Lakers la Coppa NBA, vincendo anche il titolo Mvp di miglior giocatore dell’anno. Altro che intelligenza artificiale: qui parliamo di un campione reale.