Sono passati quasi 2 mesi dal tragico attacco di Hamas nei territori israeliani al confine della Striscia di Gaza. Nei giorni immediatamente successivi all’azione terroristica, il mondo si interrogava su quale sarebbe stata la reazione di Israele, dando per scontato un intervento molto pesante da parte dell’esercito, con elevate probabilità che il conflitto potesse estendersi all’intera regione medio-orientale, in considerazione dell’appoggio da parte di un Paese come l’Iran piuttosto che degli Hezbollah di casa in Libano. Invece (grazie anche alle forti pressioni diplomatiche americane), seppur vi siano state rappresaglie israeliane che hanno causato tra gli 11.000 e i 12.000 morti tra i disperati che abitano all’interno della Striscia, con circa 1 ML di profughi che hanno perso quel poco che avevano, si sono aperte trattative che hanno portato al rilascio di diversi ostaggi e, nonostante i bombardamenti israeliani siano ripresi, si spera di portare a casa anche gli altri.
In altri tempi non c’è dubbio che le cose avrebbero preso una piega ben diversa.
In queste settimane, in Italia, si ricordano le “domeniche a piedi”: la prima, guarda caso, fu proprio il 2 dicembre 1973, ad inaugurare quella che verrà ricordata come la stagione dell’austerity. Le cause vanno ricercate proprio nell’esplosione della guerra del Kippur, datata 1973 (6-25 ottobre), quando gli eserciti di Egitto e Siria invasero i territori israeliani.
Si sa che le guerre, qualsiasi sia la loro causa (politica, religiosa, territoriale, economica), hanno molto spesso un forte impatto economico. E quella del 1973 forse ne è l’esempio più evidente.
All’epoca, il mondo dipendeva per oltre il 70% dalle forniture energetiche del mondo arabo. La chiusura del Canale di Suez, che costringeva le petroliere a circumnavigare il Continente africano, facendo aumentare a dismisura il costo del trasporto, allungando altresì i tempi di consegna, l’embargo imposto dai Paesi produttori ai Paesi che sostenevano Israele, l’aumento delle royalties sempre dei Paesi produttori causarono la più grande crisi energetica che si ricordi, oltre a dare il via ad una fase di inflazione molto elevata, che caratterizzò buona parte degli anni 70.
Oggi le cose, per fortuna, sono un po’ diverse. La scoperta di pozzi petrolieri nei Mari del Nord, l’aumentata capacità produttiva americana (tra i maggiori estrattori di petrolio, oltre che all’avanguardia nel “fracking”, vale a dire la produzione derivante dalla “frantumazione” delle rocce), la diversificazione energetica, ulteriormente cresciuta dopo lo scoppio del conflitto ucraino, hanno, sotto certi aspetti, “abbassato” il valore della guerra. Prova ne è il fatto che il prezzo del petrolio è addirittura sceso negli ultimi 2 mesi (in quei giorni si aggirava intorno a $ 82,4, ieri ha chiuso a $ 73,4), contribuendo non poco alla discesa dell’inflazione di queste settimane. Senza dimenticare che, nel frattempo, l’Arabia Saudita, da sempre ritenuta vicina all’Iran, e quindi tra i principali “nemici” di Israele, si è da poco aggiudicata l’Expo 2030 (dopo aver già “intascato” i Mondiali di calcio 2034) grazie anche all’appoggio di molti Paesi europei. Da qui un atteggiamento politico di maggior cautela, che ha portato Riad a prendere, sotto certi aspetti, le distanze dal regime iraniano (come, peraltro, anche se in misura minore, gli Hezbollah libanesi), al punto che le reiterate richieste di embargo da parte di quel Paese sono state tutte respinte, come pure quella di chiudere le relazioni diplomatiche con Gerusalemme.
Anche così si spiega la “calma” in corso (anche se le cose, viste a migliaia di chilometri di distanza assumono sempre una dimensione diversa), con i negoziati, “supervisionati” dal Segretario di Stato Usa Blinken, che continuano senza sosta. Calma che si ripercuote, ovviamente, anche sui mercati, molto “sensibili” e “reattivi” alle vicende geo-politiche. Questa volta, infatti, pur in presenza di 2 guerre “non indifferenti”, non si è assistito a nessun “attacco di panico”: anzi, come noto, il mese di novembre è stato uno dei mesi migliori da 60 anni a questa parte, con rialzi che, in alcuni casi, sono arrivati a sfiorare il 10% (anche se, come è giusto (e meglio) che sia, in queste prime 2 sedute di dicembre l’euforia sembra un po’ passata).
Ieri sera seduta negativa per Wall Street, con il Dow Jones in calo dello 0,11%, mentre il Nasdaq ha perso per strada l’1%.
La giornata asiaticasta per chiudersi in scia a quella americana, con discese ben oltre l’1%.
A Tokyo il Nikkei arretra dell’1,37%, in coincidenza con dati non troppo positivi da parte dell’attività privata.
A Hong Kong l’Hang Seng, il più “tecnologico” tra i listini asiatici, arretra di quasi il 2,50%, mentre Shanghai frena dell’1,67%.
Futures ovunque negativi, con ribassi che vanno dal – 0,18% dell’Eurostoxx al – 0,59% del Nasdaq.
Stabile il petrolio, con il WTI sempre a $ 73,13.
Gas naturale Usa a $ 2.699.
Oro a $ 2.053, dopo che ieri mattina era arrivata a stabilire il nuovo record assoluto a $ 2.146.
Spread in salita, a 178 bp: il motivo potrebbe essere la rinnovata tensione relativa al Patto di Stabilità, per il quale la strada pare si stia facendo nuovamente complicata.
BTP al 4,10%.
Bund al 2,35%.
Treasury al 4,25%.
Torna a rafforzarsi il $, con €/$ a 1,084.
Torna sui suoi passi anche il bitcoin: dopo essere arrivato a $ 42.300, questa mattina lo troviamo a $ 41.510 (il rialzo da inizio anno, comunque, si aggira intorno al 150%…).
Ps: come ogni anno, è stata pubblicata, da Il Sole 24 ore, la classifica delle province italiane in termini di “qualità della vita”.
La città capoluogo in cui si vive meglio è Udine, con un balzo di ben 11 posti rispetto all’anno precedente. In fondo alla classifica Foggia, con Napoli terzultima, preceduta, al penultimo, da Caltanissetta. A definire la classifica sono alcuni indici, come ricchezza e consumi, affari e lavoro, demografia-salute-società, ambiente-servizi, giustizia-sicurezza, cultura-tempo libero. Milano è all’8° posto, mentre Bologna, prima l’anno scorso, scende al secondo. Ai primi 10 posti altrettante città del nord: ancora una volta, il quadro che ne emerge, è, più che mai, un’Italia divisa in 2.