Niels Bohr, il fisico danese che vinse, nel 1922, il Premio Nobel per la Fisica, era solito dire che “è molto difficile prevedere, soprattutto il futuro”.
A poco più di 1 mese dalla fine dell’anno, ne abbiamo l’ennesima conferma: per molti, tra economisti e analisti, infatti, il 2023 sarebbe stato contraddistinto dalla recessione. Cosa di cui, invece, non si è avuta traccia (a meno che non il mondo non sia costituito unicamente dalla Germania): l’economia americana, infatti, è destinata a chiudere l’anno con una crescita nell’ordine del + 2,3%, mentre l’Europa crescerà di un più modesto + 0,6% (qui si che pesa l’arretramento di Berlino). A livello globale, il PIL dovrebbe raggiungere i $ 105.000 MD, aggiungendo $ 5MD al risultato dell’anno precedente (e quindi con una crescita percentuale di circa il 5%, numero peraltro inficiato dall’inflazione).
Da un punto di vista di andamenti borsistici, ciò ha comportato una “forbice” molto evidente tra un indice e l’altro, oltre che tra un mercato e l’altro.
Ad essere maggiormente penalizzati sono stati i titoli più “tradizionali”, come i difensivi (consumi di base, utilities, healthcare), mentre quelli più performanti risultano essere stati tutti quelli definiti ciclici (consumi discrezionali), le banche (aiutate anche dagli aumenti delle Banche Centrali) e, soprattutto, i tecnologici. Il Nasdaq, per esempio, indice di riferimento per la tecnologia, è vicinissimo a toccare i massimi del novembre 2021. Non sono andate male le cose, comunque, anche per lo S&P 500, a cui mancano solo 4 punti per tornare alla vetta (anche se su questo listino è opportuno fare una precisazione: alla chiusura di venerdì, ha fatto segnare 4.559,34 punti. Se, però, lo depuriamo dei “magnifici sette” – Microsoft, Apple, Google, Nvidia, Tesla, Meta e Amazon, il cui valore di mercato cumulato arriverebbe a $ 12.000 MD, corrispondente alla somma del PIL di Giappone, Germania e Francia – vediamo che a malapena raggiungerebbe i 3.900 punti, ben più lontano, quindi, dai massimi di fine 2021. Il loro “peso” sull’indice, infatti, si aggira intorno al 30%, mentre in termini di fatturato si ferma “solo” al 20%). Non sono andate male le cose neanche per il listino francese e per quello tedesco, anche se il miglior indice europeo, al momento, risulta essere il nostro MIB, che a venerdì scorso ha realizzato un rialzo, da inizio anno, del 24%. Nonostante questo, siamo ancora lontanissimi dal record di 50.000 punti toccati nell’ormai lontano 2000 (a venerdì eravamo a 29.432 punti).
Se guardiamo agli utili, parametro fondamentale nella valutazione dei titoli azionari e degli indici che li rappresentano, notiamo che l’indice americano è assolutamente il più “caro” di tutti, arrivando ad un valore che è pari a 20,7 volte gli utili. Anche qui, peraltro, il dato è influenzato in modo determinante, ancora una volta, dai “soliti” 7, che quotano un valore la cui media è 57 volte gli utili. Numeri che, se riferiti agli utili previsti per il 2024, arrivano quasi a dimezzarsi, rendendo, quindi, sulla carta, più “convenienti” i titoli, ma, dall’altra parte, lasciando intendere che probabilmente l’anno che verrà potrebbe essere anche quello della “riscossa” per i listini più “tradizionali” (come, per esempio, il Dow Jones), che potrebbero accorciare il “gap”. L’Europa, di fatto la “meno cara” (l’Eurostoxx quota 12,8 volte gli utili), potrebbe, sotto questo aspetto, in prospettiva, essere tra le più interessanti, così come i mercati emergenti (13,6 volte gli utili) e la Cina (15,5 volte, seppur in questo Paese le problematiche, al momento, non sono poche).
Determinanti, ancora una volta, saranno le politiche monetarie delle Banche Centrali: se, come da più parti comincia a farsi largo, l’ipotesi del taglio dei tassi diventasse realtà a partire dalla tarda primavera, andando da un minimo di 2 a 4 (in quest’ultimo caso equivalenti a circa l’1% di ribasso), allora l’idea di un “soft landing” diventerebbe molto probabile, lasciando spazio a nuovi rialzi delle quotazioni.
Ma avremo un mese (e forse più) di tempo per capire quale sarà la “rampa di lancio” per il 2024. E quindi cimentarci nella difficile arte delle previsioni.
Inizio di settimana all’insegna delle vendite per i mercati asiatici, per quanto, sul finale di seduta, ci siano segnali di recupero.
A Tokyo, il Nikkei perde circa lo 0,53%, dopo la notizia che il prezzo dei servizi alle imprese sono saliti, nell’ultimo mese, del 2,3% anno su anno, il maggior aumento da 3 decenni a questa parte.
Shanghai lascia sul terreno circa lo 0,30%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng si avvicina alla parità.
Futures in ribasso di circa lo 0,20/0,25% a Wall Street, mentre si aggirano intorno alla parità in Europa.
Continua la discesa del petrolio, con il WTI in arretramento, questa mattina, dello 0,62%, a $ 75,14.
Gas naturale Usa in brusca frenata (– 3,93%), a $ 2,886.
Supera di slancio i $ 2.000 (2.012) l’oro (+ 0,38%).
Buona partenza per lo spread, che apre le contrattazioni a 172,2 bp.
BTP a 4,38%.
Bund 2,65%.
Treasury Usa appena sotto 4,50% (4,49).
In apprezzamento l’€, che si avvicina a 1,10 (1,0955).
Bitcoin sui livelli a cui lo avevamo lasciati venerdì (37.221).
Ps: nel 2010 alcuni sommozzatori hanno rinvenuto, nelle acque del Baltico, a circa 50 mt di profondità (dettaglio non irrilevante), il relitto di una nave naufragata verso la metà del XIX secolo. A bordo furono rinvenute delle casse di champagne, contenenti 145 bottiglie, poi rivendute in un’asta negli USA (e dove, se no…), alla modica cifra di $ 200.000 l’una (pare fosse Veuve Clicquot). Ma la vera notizia non è il prezzo di vendita, per quanto esorbitante, quanto piuttosto il fatto che pare che si sia conservato in maniera incredibile, almeno stando a quanto ha riferito un docente di biochimica alimentare dell’università di Reims, il prof. Philip Jandet, che lo ha definito il miglior champagne mai bevuto. Al punto che la stessa Veuve Clicquot ha iniziato a deporre casse di bottiglie (in appositi contenitori) in fondo al mare, nello stesso punto dove è stato ritrovato il relitto.