$ 100 MD. Questo il costo della “trasferta” medio orientale di Joe Biden di questa settimana.
Nel suo discorso di ieri sera (questa notte in Europa), il Presidente americano ha ribadito, in sostanza, che gli Usa non verranno meno al loro ruolo di “guardiani del mondo”, annunciando un gigantesco piano di aiuti.
In realtà, i soldi che verranno chiesti al Congresso (e che andranno presumibilmente ad aumentare il debito USA, già ben superiore ai $ 30.000 MD) verranno in buona parte (60 MD) stanziati a favore dell’Ucraina, mentre i rimanenti 40 verranno suddivisi tra Israele (in buona parte) e per rafforzare le difese intorno a Taiwan nonché il confine con il Messico. Uno sforzo non indifferente, ma non dimentichiamo, ancora una volta, che siamo alla vigilia di un anno elettorale, in cui ogni cosa può utile per portare l’acqua al proprio mulino (per esempio un “aiutino” alle lobbies militari – a bilancio gli USA, per il 2023, hanno messo $ 858 MD, con questi si arriverebbe a quasi $ 1.000 MD – può significare molto). Oltre al fatto che le guerre, quasi sempre, “aiutano” a far girare l’economia.
Un’economia, quella americana, che, peraltro, continua a dare segnali, se non di forza, almeno di resilienza.
Per quanto l’inflazione sia ulteriormente scesa (a settembre, quella core, che esclude, quindi, i prezzi più volatili, come energia ed alimenti, era al 4,1%), le vendite al dettaglio sono comunque aumentate, andando oltre le previsioni. Idem la produzione industriale, che non da segnali di cedimento. E negli 3 mesi si sono aggiunti 266.000 nuovi posti di lavoro, esclusi quelli nel settore agricolo; di contro, le nuove richieste di sussidi di disoccupazione, la scorsa settimana, sono scesi ai minimi da 9 mesi. Una concatenazione di fattori (occupazione-consumi-produzione) che “spinge” il PIL: non a caso, per il 3° trimestre, le previsioni indicano la crescita più forte dal 2021.
Oltre al discorso alla nazione di Biden, ieri era molto atteso anche quello del Presidente della FED.
Jerome Powell ha, ancora una volta, confermato i progressi dell’azione della Banca Centrale nella lotta all’inflazione USA, come detto scesa al 4,1%, sottolineando, peraltro, che tutti gli effetti non si sono ancora manifestati. Ancora una volta la parola d’ordine è “cautela”, ormai diventato quasi un “mantra” (non solo per la FED, ma anche per le altre Banche Centrali: un modo per tenersi “le mani libere” e non essere smentiti in caso di repentini cambiamenti della politica monetaria). In sostanza, la linea del rigore non viene smentita, con il preciso obiettivo di portare l’inflazione al target del 2%; allo stesso tempo, però, viene prestata la massima attenzione per mantenere l’economia su una traiettoria di crescita che tenga lontano qualsiasi segnale di recessione (la disoccupazione è uno degli incubi americani). Gli osservatori hanno interpretato le parole di Powell in maniera positiva, prevedendo che nella prossima riunione del 31 ottobre, per la seconda volta consecutiva, il Comitato della FED manterrà i tassi fermi al 5.25/5,50%, spostando l’eventuale rialzo per l’ultima riunione dell’anno che si terrà a dicembre.
Certamente, rispetto a qualche settimana fa, i motivi di incertezza sono aumentati, e non di poco, con la crisi medio-orientale tornata con prepotenza ad essere il “centro di gravità”. Ogni previsione può pertanto essere smentita da un giorno all’altro in caso di esplosione del conflitto: se da una parte gli USA si dicono pronti a difendere, anche con le armi, “l’amico” israeliano, dall’altra la diplomazia continua a trattare per trovare una soluzione che eviti nuovi massacri (forse anche per questo Israele continua a rinviare il tanto annunciato attacco a Gaza).
Il discorso di Powell non ha contribuito a fermare il nervosismo che, anche ieri, si è impadronito dei mercati.
Dopo una prima reazione positiva, Wall Street ha reingranato la retromarcia, portando gli indici a chiudere in territorio negativo (Dow Jones – 0,75%, Nasdaq – 0,85%, S&P – 0,85%).
Andamento analogo, questa mattina, per le piazze asiatiche: a Tokyo il Nikkei perde lo 0,38%, a Hong Kong l’Hang Seng scende dello 0,75%, mentre Shanghai arriva, in questi minuti, a – 0,90%.
In Cina la Banca Centrale ha nuovamente iniettato liquidità nel mercato attraverso strumenti monetari a breve termine. In Giappone, invece, l’inflazione, per il 18° mese consecutivo, l’inflazione si conferma al di sopra del target del 2%.
A sorpresa la Banca Centrale indonesiana ha rialzato i tassi; una scelta, però, più legata alla perdurante perdita di valore della rupia indonesiana che non all’andamento dei prezzi.
Futures in ribasso ovunque, con perdite intorno allo 0,40/0,50%.
Balzo del petrolio, con il WTI che arriva a $ 89,36 (+ 1,02%).
Gas naturale Usa che scende sotto i $ 3 (2,955, – 0,27%).
Oro prossimo ai $ 2.000 (1.990, + 0,39% anche questa mattina), spinto dalle tensioni geopolitiche.
Spread a 202 bp, con il BTP sempre ad un soffio dal 5% (4,94%).
Bund a 2,94%.
Treasury che continua a “vedere” il 5%: ieri si è fermato al 4,95%.
€/$ sempre intorno a 1,057 (1,0566).
Strappa il bitcoin, che si porta sopra i $ 29.000 (29.217), emulando l’oro, quasi fosse un bene rifugio (uno dei paradossi delle criptovalute).
Ps: esce oggi, dopo 18 anni, il nuovo album (inteso come registrazioni di studio) dei Rolling Stones. Come noto, dopo la scomparsa di Charlie Watts, il batterista del gruppo, avvenuta nel 2021 (peraltro compare in una delle tracce musicali, essendo la registrazione stata fatta prima della sua morte), il nucleo “storico” si è ridotto a 3: Mick Jagger, che ha compiuto 80 anni a luglio, Keith Richards, che gli 80 li compirà a dicembre, e Ronnie (Ron) Wood, che di anni ne ha 76. E in una canzone fa la sua apparizione Paul mcCartney, 81 anni. Eppure, dopo 61 anni (i Rolling Stones sono nati nel 1962) hanno l’energia di una band di teenager (tra parentesi, è già on line: puro stile Rolling Stones…).