La Germania di fatto è “l’azionista di maggioranza” della BCE. Con un PIL che sfiora i 4.000 MD €, si pone come l’economia, nonostante la debole congiuntura attuale, più forte in Europa e tra le maggiori del mondo. La sua forza finanziaria, come scritto ieri, le permette interventi a sostegno del mondo imprenditoriale nell’ordine di decine di miliardi (peraltro fortemente criticati, in quanto giudicati insufficienti, da parte della Bdl, l’equivalente della nostra Confindustria, che ritiene che ben altre avrebbero dovuto essere le misure a favore delle piccole-medie imprese) per mettersi alle spalle un periodo non semplice.
A fronte di una crescita che nel 2° trimestre dell’anno è stata paria a zero, l’inflazione continua a rimanere elevata, ben sopra il livello di guardia: i dati comunicati ieri (oggi verranno resi quelli relativi alla media UE, oltre a quelli della Francia) confermano una discesa lenta, con i prezzi saliti, a 12 mesi, del 6,1% (6,2% a fine luglio), con un’inflazione core che persiste al 5,5%. A completare il quadro un elemento che può spiegare molte cose: l’aumento medio degli stipendi, nell’ultimo anno, è stato del 6,6%, superiore, quindi, all’inflazione. E, come dicono i “libri di scuola”, nel momento in cui l’inflazione si trasferisce sui salari debellarla può diventare un problema, portando i cittadini a non ridurre i consumi, e quindi la domanda di beni e servizi.
In sintesi, una rappresentazione perfetta dello scenario peggiore che potrebbe prospettarsi per chi è chiamato a “indirizzare” l’economia.
Con l’arrivo di settembre, la BCE, così come la FED americana, sarà chiamata ancora una volta a dire la sua in materia di tassi.
Anche negli USA gli ultimi dati ci dicono che si è di fronte ad un rallentamento del ciclo economico: la creazione di nuovi posti di lavoro è in diminuzione (177.000 vs i 371.000 di luglio, meno dei 195.000 attesi dagli analisti) e anche il PIL, per quanto ancora elevato (+ 2,1% nel 2° trimestre, in calo dal + 2,4% inizialmente previsto, comunque superiore alla soglia dell’1,8% considerata dalla FED come “linea di confine inflazionistica”), da qualche segnale di cedimento. La principale differenza con l’UE è data dall’inflazione, che dall’altra parte dell’Oceano ormai si è ridotta al 3% e continua a dare segnali di cedimento. Ben più facile, quindi, per Powell pensare di “saltare un giro”, lasciando, almeno per ora, le cose come stanno.
Non così le cose, evidentemente, per Christine Lagarde: non toccare i tassi potrebbe significare dare nuova linfa alla spirale dei prezzi (in Spagna, per esempio, seppur sia il Paese messo meglio in Europa, con un’inflazione prossima al 2%, ad agosto vi è stata una significativa accelerazione, che ha riportato l’indice verso il 2,5%), andare ad aumentarli, di contro, potrebbe ulteriormente aggravare le cose. Già qualche segnale, sul fronte del credito, lo si vede, con l’erogazione di nuovi prestiti alle imprese in nuova diminuzione (soprattutto in Italia): con tassi ormai ben sopra il 4%, è ovvio che gli oneri finanziari diventano una zavorra per i conti aziendali, riducendo non di poco i margini aziendali. Che si accompagna ad un “umore” del mondo imprenditoriale sempre più cupo, alimentato dal fatturato del settore industriale in diminuzione (– 0,6% nel 2° trimestre) e una scarsa fiducia sulla tenuta dell’economia più in generale. Tradotto, con settembre si potrebbe entrare in “decoupling”, vale a dire ad una divaricazione degli indirizzi monetari: improntati ad un allentamento negli USA, mentre a Francoforte potrebbe di nuovo prevalere la linea del rigore. Senza dimenticare gli altri temi sul tavolo della BCE, in primis, con l’approssimarsi del 2024, il ritorno del patto di stabilità, già in queste settimane oggetto di critiche e preoccupazione da parte dei “soliti noti”, cioè i Paesi finanziariamente più esposti (e quindi noi in testa, dall’alto del nostro 144% di rapporto debito/PIL).
Ieri sera nuova chiusura positiva per i mercati statunitensi, con il Nasdaq ancora in vetta alla classifica (+ 0,56%).
Questa mattina, nel Far East, solo il Nikkei di Tokyo ne segue le orme, in crescita dello 0,83%.
Prendono fiato Shanghai (– 0,42%) e, a Hong Kong, l’Hang Seng (- 0,16%).
Debole anche la Corea del Sud, dove il Kospi è in calo di circa l’1%.
Futures ben impostati in Europa, mentre al momento si trovano intorno alla parità quelli americani.
Stabile il petrolio, con il WTI a $ 81,69.
Gas naturale USA a $ 2,79.
Oro a $ 1.953,30.
Spread sempre “all’ancora” dei 160 bp: questa mattina è a 163,3 bp.
BTP poco mossi, al 4,19%.
Bund a 2,55%.
Treasury Usa 4,10%.
Leggermente debole il $, con €/$ a 1,091.
Bitcoin che, dopo lo “strappo” di 2 giorni fa, si è stabilizzato intorno ai $ 27.000 (27.250).
Ps: cento anni fa, il 1° settembre 1923, nasceva Rocky Marciano, considerato, forse a ragione, il più grande pugile di sempre. Su 49 incontri, ne ha vinti 49, senza neanche una sconfitta. E di questi, ben 43 per KO (quindi quasi il 90%, di cui 20 entro la terza ripresa). E’ stato campione del mondo dei pesi massimi dal 1952 al 1956. Ma la cosa incredibile è che a cominciato a calcare il ring a 25 anni, un’età in cui molti atleti raggiungono la maturità agonistica. Era nato 100 anni fa, ed è morto esattamente 54 anni fa, in un incidente aereo: era il 31 agosto 1969.