Johannesburg e Jackson-Hole hanno ben poco, se non nulla, in comune, lontanissime anche geograficamente tra di loro: una tra le maggiori città del continente africano, l’altra sperduta località turistica tra le montagne del Wyoming (una sorta di Davos “made in Usa” tanto per intenderci).
Una lontananza che gli appuntamenti di questi giorni rendono forse ancora maggiore. E’ lì, infatti, che si stanno svolgendo incontri che possono, in prospettiva, cambiare l’ordine delle cose, nel breve, ma forse ancor di più, nel lungo termine.
Sul breve termine (anche se da come va “il breve termine” dipende come andrà “il lungo termine”) c’è attesa, oggi, per i discorsi di Jerome Powell e Christine Lagarde al simposio che vede riuniti i maggiori banchieri centrali e molti “money makers”. Le cose sono indubbiamente molto diverse rispetto a 12 mesi fa, quando il mondo si trovava nel pieno dell’uragano inflattivo (negli Usa, per fare un esempio, era oltre il 9%, oggi è poco sopra il 3%). Sotto certi aspetti il compito di chi è chiamato a decidere le politiche monetarie forse oggi è ben più difficile rispetto ad un anno fa, come le contraddittorie notizie sullo stato delle varie economie di pochi giorni fa sembrano confermare: se allora la strada non poteva che essere quella della stretta monetaria (anzi, il cruccio per molti è che doveva iniziare ben prima), oggi continuano a fronteggiarsi coloro che sostengono opportuno un ammorbidimento delle decisioni e quelli che, al contrario, temono un “ritorno di fiamma” dei prezzi, che annullerebbe tutto ciò che di buono è stato fatto in questi mesi. Certo i tassi oggi si trovano a livelli mai così alti da decenni (negli USA siamo al 5,25% e bisogna andare indietro di 22 anni per ritrovarne di simili, in Europa siamo indietro di 100 bp, al 4,25%, e forse un po’ di spazio c’è ancora), ma se l’economia dovesse continuare a sorprendere (positivamente) e i prezzi dovessero faticare a scendere (per quanto quelli alla produzione stiano dando segnali di caduta) non è detto che non ci siano ancora un ulteriore irrigidimento. Da qui la necessità di comprendere dai discorsi di chi ha “informazioni di prima mano” quali sono le previsioni e il conseguente “da farsi”.
Il vertice tra i Paesi in via di sviluppo in corso dall’altra parte del mondo ci proietta, invece, in un futuro più lontano.
E’ molto probabile, innanzitutto, che dovremo abbandonare l’acronimo BRICS, coniato nel 2001 da James O’Neill, economista di Goldmann Sachs (in realtà era nato come BRIC, che sta ad indicare Brasile-Russia-India- Cina, solo successivamente si è aggiunto il Sud-Africa). Infatti, i 5 Paesi “fondatori” hanno proposto ad Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti di entrare a far parte dell’associazione. Già oggi parliamo di un “blocco” che riunisce il 40% della popolazione mondiale e “vale” circa il 25% del PIL mondiale: dal 1 gennaio 24 (quella è la data da cui i 6 Paesi entreranno a far parte) saliranno al 45% della popolazione mondiale e al 30% del PIL (per qualcuno anche di più: per avere un termine di confronto, il PIL dei G7, i sette maggiori Paesi sviluppati, è pari a circa $ 45.000 MD). Ma un altro numero forse aiuta a comprendere il cambiamento in atto: se oggi i 5 Paesi “fondatori” raggruppano il 20% della produzione mondiale di petrolio, il “BRICS” allargato passerà al 42%, cosa che, evidentemente, potrebbe condizionare non poco l’offerta del più importante tra i combustibili fossili. Tante, quindi, le questioni in gioco, che potrebbero accelerare processi di cambiamento già in atto, dai flussi migratori a nuove alleanze, da aspetti puramente monetari, quali la nascita di una nuova moneta, voluta soprattutto dal Brasile ma sponsorizzata, così pare, anche dalla Cina (anche se al momento il percorso sembra piuttosto accidentato), a quelli più macro-economici, con il baricentro dell’economia destinato sempre più a spostarsi verso sud.
Dopo una buona partenza, ieri i mercati americani, dopo le notizie della “tenuta dell’economia”, hanno invertito la rotta, chiudendo in territorio negativo, seguiti, questa mattina, da quelli asiatici.
A Tokyo il Nikkei perde oltre il 2%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng scende dell’1,16%.
Un po’ meglio va a Shanghai, dove il calo si ferma allo 0,59%.
Avvio positivo per Milano, con l’indice Mib che sale dello 0,20%.
Futures Usa leggermente positivi.
Recupera terreno il petrolio, con il WTI che si porta a $ 79,67 (+ 0,67%).
Debole il gas naturale Usa ($ 2,515, – 0,15%), così come l’oro, che questa mattina fa segnare $ 1.924 per oncia.
Continua invece la caduta del megawattore al nodo di Amsterdam, sceso a € 32.
Spread a 165 bp.
Stabili i rendimenti dei governativi: BTP al 4,17%, mentre il Treasury Usa è al 4,24%.
Bund tedesco al 2,51%.
Nuovo rafforzamento per il $, che si porta a 1,078 vso €.
Ps: a livello globale, il livello dei sussidi per l’estrazione dei combustibili fossili è arrivato a superare i $ 7.000 MD, più del 7% del PIL mondiale. Per l’istruzione ci si ferma al 4,3%, mentre per la sanità si arriva al 10,9%.
E pensare che fino a 2 anni fa, prima dello scoppio della guerra, sotto la spinta della “transizione ecologica”, il destino sembrava segnato….