Parafrasando terminologie spesso in uso per descrivere vuoti di potere o, peggio ancora, l’assenza, in alcune aree geografiche del nostro Paese, di precise strutture di controllo, si potrebbe dire che, a livello finanziario e macro-economico, ci troviamo in una sorta di “terra di mezzo”.
Gli attesi dati di ieri sullo stato dell’inflazione Usa ci confermano, come peraltro atteso, che ci stiamo sempre più allontanando dal picco fatto registrare poco meno di un anno fa, quando, a giugno 2022, si toccò, anno su anno, il 9,2%. Per la 1° volta da circa 2 anni, l’aumento dei prezzi è sceso sotto il 5%, facendo registrare ad aprile il 4,9%. Uno “striminzito” 0,1% in meno rispetto a marzo, ma che ribadisce che il percorso intrapreso va avanti. Ma, allargando lo sguardo all’inflazione core, scopriamo che le cose non sono così positive, se è vero che siamo ancora al 5,5% (5,6% a marzo), con un aumento, su base mensile, dello 0,4%. Ancora diverso l’andamento dell’indice “supercore” (quello che, oltre ai prodotti energetici e quelli alimentari esclude anche gli affitti), sceso, in 1 mese, dal 5,8% al 5,1%, mentre il prezzo dei servizi, sempre negli Usa, è salito del 6,8%.
Insomma, una marea di numeri, che, alla fine, ci dicono essenzialmente 2 cose: la prima che il trend dei prezzi, seppur con i vari distinguo, è in discesa, la seconda che però il processo è lento e la distanza rispetto al target del 2%, ritenuto il punto di arrivo, ancora molta. Notizie che “bilanciano” gli umori di economisti ed investitori e rendono sempre non semplice la vita dei banchieri centrali, alla continua ricerca dell’equilibrio tra manovre che spingano la crescita senza provocare “guai” ulteriori.
In un contesto simile, rimanendo sempre oltre oceano, è improbabile che la FED in uno dei prossimi meeting, già calendarizzati per giugno e luglio, senta la necessità di un ulteriore ritocco dei tassi. E’ altrettanto vero, però, che non sia così scontata e, soprattutto, vicina una loro riduzione: sembra quindi allontanarsi l’idea di una discesa (si ipotizzava addirittura di 100 bp) entro la dine dell’anno.
Da qui l’incertezza che si è notata ieri sui mercati, con quelli europei che, dopo un partenza negativa e un tentativo di recupero non appena sono stati pubblicati i dati americani, hanno nuovamente ripiegato, mentre quelli americani, avendo avuto più tempo per “elaborarli”, hanno, sul finale di seduta, “raddrizzato” la situazione.
Che ci si trovi un momento di incertezza, in cui sembra quasi che si preferisca stare alla finestra, in attesa che qualcuno faccia la prima mossa e indichi la rotta, lo si può ancora meglio comprendere analizzando l’andamento dello S&P 500, ritenuto l’indice più rappresentativo a livello globale. Da inizio anno, la performance è positiva del 7%. Sulle 503 società che lo compongono, notiamo però che più della metà (270) da inizio anno hanno performance negative. Le 5 maggiori società che compongono l’indice (Apple, Microsoft, Amazon, Nvidia e Google) valgono circa il 20% della sua capitalizzazione (solo Apple e Microsoft insieme fanno il 14%), hanno avuto tutte, da inizio anno, performance assolutamente positive (si va dal + 93% di Nvidia al + 22% di Google), risultati che hanno “sostenuto” non poco il listino. Infatti, escludendo dal calcolo le 5 “major”, la crescita, da inizio anno, diventa quasi impercettibile (+ 0,8% anziché + 7%). Inoltre, va ricordato come alcune di queste abbiano comunicato buyback (il piano di riacquisto di azioni proprie) molto potenti (Apple $ 90MD, Google $ 70 MD), ulteriore “benzina” in grado di sostenere le quotazioni.
Se a questo aggiungiamo il fatto che in questi mesi il mercato obbligazionario ha fatto registrare una diminuzione dei rendimenti (sinonimo di una crescita dei prezzi sulla spinta degli acquisti) e l’oro viaggia ormai stabilmente sopra i $ 2.000, non lontano dal massimo storico di $ 2.080, si può arrivare alla percezione che gli investitori diano per molto probabile l’arrivo della recessione, fattore che induce, appunto, alla cautela.
Perché le cose cambino in maniera repentina, serve quindi qualcosa una “sorpresa” positiva, in grado di convincere i mercati che non solo il peggio è alle spalle (questa ormai è una percezione abbastanza diffusa), ma che si sta preparando una fase di crescita stabile e lineare.
Intanto nella notte si è avuta la conferma che in Cina la corsa dei prezzi sta rallentando in maniera evidente: l’incremento di aprile è stato solo dello 0,1%, il più basso da inizio 2021: nello stesso mese di un anno fa era stato del + 0,7%, e le attese erano del + 0,3%. Allo stesso modo, i prezzi alla produzione hanno fatto registrare un calo per il 4° mese consecutivo.
Ciò nonostante, gli indici Great China rimangono sonnolenti, con Shanghai che scende dello 0,19% e l’Hang Seng dello 0,7%. Sulla parità a Tokyo il Nikkei, mentre a Seul il Kospi è appena positivo.
Futures al momento ben impostati, in lieve crescita ovunque.
Continuano i segni di ripresa per il petrolio, con il WTI a $ 73,28.
Debole invece il gas americano, a $ 2,19 (- 0,23%).
Non si muove l’oro, a $ 2.038.
Spread a 190 bp, con il BTP al rendimento del 4,20% circa.
Bund a 2,28%.
Treasury al 3,44%, in attesa che oggi vengano resi note le richieste di sussidio di disoccupazione.
€/$ stabile, a 1.0969.
Dopo la ripresa di ieri, il bitcoin torna nuovamente sotto i $ 28.000 (27.526).
Ps: la settimana scorsa è stata posta la prima pietra per la costruzione della nuova diga foranea del porto di Genova, un’opera da € 1.3 MD, quasi interamente finanziata con i soldi del PNRR (€ 950 MD).
Ieri il TAR della Liguria ha annullato l’aggiudicazione della gara, dando di fatto ragione, per il momento, alla cordata formata dai gruppi Gavio e Caltagirone, attraverso la società Eteria, che aveva fatto ricorso contro l’aggiudicazione a WeBuild-Fincantieri. Ma il contratto non decadrà, per effetto delle garanzie particolari dovute al piano PNRR. In caso di conferma della sentenza, si andrebbe incontro, da parte dell’autorità portuale genovese, a rimborsi milionari. Siamo pur sempre in Italia….