Quindi “pari e patta” tra FED e BCE dopo l’ultimo rialzo dello 0,25% deciso in rapida successione (mercoledì quella americana, ieri quella europea)?
Non proprio.
Negli USA l’inflazione, per quanto ancora elevata, si aggira intorno al 4,6%. Di contro, dopo l’ultima decisione della Banca Centrale, i tassi si sono portati nel range 5/5,25%. Quindi ad un livello più alto rispetto all’aumento medio dei prezzi. Questa è una delle motivazioni per cui il rendimento di un Treasury sulla scadenza di 6 mesi si trova al 5%, contro il 3,38% circa di un governativo a 10 anni. In altre parole, il mercato ritiene che sulle durate brevi i rendimenti rimangano superiori in quanto tra qualche mese i tassi inizieranno a scendere, dovendo, la Banca Centrale, invertire la rotta, riprendendo una politica più moderata (dovish, cioè “colomba”) per combattere una recessione che, per quanto non così profonda, potrebbe comunque incidere sulla crescita economica dell’anno in corso.
Nell’area €, invece, ci troviamo con un’inflazione ben superiore (quella “core” è al 5,6%), mentre invece, dopo il ritocco di ieri, il livello del tasso interbancario ha toccato il 3,75%, mentre quello sui depositi è passato dal 3% al 3,25% (ancora a luglio di 1 anno fa era a – 0,50%).
Percentuali da cui il mercato trae il convincimento che mentre negli Usa i rialzi dovrebbero aver raggiunto il picco (fatto salvi nuovi colpi di scena), nell’area UE nei prossimi mesi potremmo ancora vedere una BCE il cui attivismo non si ferma. Vero è che, dopo 5 rialzi consecutivi (su 7 complessivi) compresi tra lo 0,75 (2) e lo 0.50% (3), ieri la BCE ha “spostato l’asticella” solo dello 0,25%, ma va detto che, rispetto alla FED, è dotata di una “cassetta degli attrezzi” un po’ più ampia e variegata. Forse anche per questo il mercato più che “soppesare” l’aumento dello 0,25% ha osservato con maggior attenzione la scelta di accelerare, a partire dal prossimo luglio, la riduzione del bilancio, portando da 15 a 25MD mese l’immissione di titoli sul mercato a seguito del mancato rinnovo dei titoli in scadenza. Numeri che possono sembrare granellini di sabbia rispetto all’entità dei titoli sottoscritti in questi anni (di questo passo ci vorrebbero circa 15 anni per arrivare al loro azzeramento), ma che comunque lasciano intendere quali potrebbero essere i prossimi passi: una maggior cautela sui tassi, per non penalizzare oltremodo la crescita, “liberando” invece asset in questo momento congelati. A farne maggiormente le conseguenze probabilmente saranno Paesi come il nostro, maggiormente indebitati e, soprattutto, bisognosi di “mani amiche” in grado si soccorrerli all’evenienza. Qualcosina si è già intravisto ieri, con lo spread che, non a caso, ha toccato i 192 bp, per poi “limare” a 190 bp. Magari non si arriverà ai 300 bp previsti dagli analisti di Goldman Sachs, ma un innalzamento a 220/230 bp non è così remoto.
Va anche detto che il quadro americano qualche complicazione la sta manifestando, elemento che potrebbe indurre ulteriormente alla cautela la Banca Centrale.
Il “maggior indiziato” è il settore bancario, come la giornata di ieri ha ulteriormente confermato. Ancora una volta il mercato ha punito diverse banche di medie dimensioni, provocando perdite pesanti nei valori di borsa (PacWest è arrivata a perdere il 60%, per poi ridurre il calo al 36%). A destare qualche preoccupazione è l’entità degli attivi (i prestiti e i finanziamenti, nelle varie forme, erogati alla clientela): si calcola che, ricomprendendo le banche già “saltate” (Silicon Valley, First Republic, Signature Bk) e quelle oggi “traballanti”, si arrivi a circa $ 700 MD. Che è più o meno il valore di quelli “in pancia” alla Lehman Brothers, che la costrinsero ha portare i libri in tribunale. Vero è che erano concentrati in un unico istituto, per giunta con forti diramazioni internazionali, mentre in questo caso si parla di banche “regionali”, e quindi “domestiche”, ma comunque un impatto sull’economia locale potrebbe averlo. E poiché l’economia “locale” è quella americana, e non di un isolato Paese dell’Africa sub-sahariana, qualche “scossa di assestamento” potrebbe farsi sentire. Ricordando, altresì, la fase particolare che gli Usa stanno vivendo, legata ai vincoli di bilancio che impongono, allo stato attuale, all’amministrazione Biden di rimanere nei limiti di $ 31.400 MD di indebitamento, soglia già toccata e superata.
Dopo la chiusura di ieri sera a Wall Street (Nasdaq – 0,37%, Dow Jones – 0,86%, S&P 500 – 0,72%), un aiuto sembra arrivare da Apple, che ieri sera ha comunicato dati relativi al 1° trimestre ben superiori alle attese, con ricavi a $ 94,8MD e un utile di $ 24,16 MD (attesi $ 22 MD). A cui si aggiunge l’informativa che, in pochi giorni, il nuovo deposito, che offre il 4,15%, ha già raggiunto una raccolta di $ 1 MD: notizia che poco impatta, probabilmente, sui numeri dell’azienda di Cupertino, ma che ne conferma l’immagine fortemente positiva e una credibilità che va ben oltre la capacità di produrre Iphone o Mac.
Ancora chiusa la borsa di Tokyo, questa mattina la Cina sembra soffrire un po’, con Shanghai in calo dello 0,52%, mentre Hong Kong cresce dello 0,29%.
Futures ben impostati ovunque, con rialzi vicini al mezzo punto percentuale.
Cerca il recupero il petrolio, con il WTI a $ 69,49, + 1,25%.
Gas naturale Usa a $ 2,067.
Oro a $ 2.055, praticamente al record storico, seppur questa mattina in leggerissimo calo (– 0,13%).
Spread a 190 bp, con il BTP intorno al 4.10%.
Bund al 2,18%.
Treasury stabile, sempre in area 3,38%.
€/$ a 1.1036.
Rimane in “alta quota” il Bitcoin, a $ 29.221 (+ 1,26%).
Ps: dove finiscono i soldi del PNRR? Tante sono, nel nostro Paese le cose da fare e le “diramazioni”. Senza dubbio le opere pubbliche forse sono il settore che più abbisogna di modernizzazione ed efficientamento. Non a caso ieri a Genova è stato inaugurato il cantiere più grande finanziato dal piano. E’ iniziata, infatti, la costruzione della nuova diga foranea che proteggerà il porto: un’opera da € 1,3MD, di cui ben 950 ML ci arriveranno dalla UE.