Come previsto, ieri la FED ha ritoccato nuovamente i tassi, portandoli, con un aumento dello 0,25%, nel range 5-5,25%, il più alto dall’estate del 2007. Dal marzo 2022 è il decimo rialzo consecutivo, la progressione più rapida dagli anni 80.
Come ormai succede da tempo, i mercati sembrano però più attenti alle parole, dette e, forse ancor di più, non dette, relative al futuro che non alle decisioni prese. Nel comunicato che è seguito alla riunione del Comitato Direttivo della FED, il presidente Powell, infatti, non ha ripetuto una frase che oramai era diventato quasi routine, vale a dire che “ulteriori strette potrebbero essere appropriate”, sostituendola con un più blando “la FED monitorerà da vicino le informazioni in arrivo e valuterà le implicazioni per la politica monetaria” al fine di valutare l’eventualità di nuovi interventi. Immediatamente sono partite le “scommesse” sui prossimi passi, con i futures che sembrano indicare che le strette potrebbero essere finite. Si iniziano, infatti, a fare previsioni che, nei prossimi vertici di giugno e di luglio la Banca Centrale americana stia ferma, per poi, da settembre, addirittura iniziare il processo inverso, in grado di riportare i tassi di riferimento intorno al 4.5% entro la fine dell’anno.
Una lettura che si presta ad una doppia interpretazione: da una parte significa che l’inflazione inizia ad essere sotto controllo lungo il percorso che dovrebbe riportarla al livello di guardia, se non del 2%, almeno del 3%, risultato comunque ritenuto più che soddisfacente. Dall’altra, dando spazio a suggestioni ben più negative, che la recessione sia alle porte e che la FED debba intraprendere una nuova lotta per evitare una “rotta di collisione” che potrebbe provocare conseguenze altrettanto gravi, se non maggiori, rispetto a quelle create dall’aumento dei prezzi.
La cosa certa è che la crescita americana ha subito, nel primo trimestre, un significativo rallentamento, portando la “velocità di crociera” ad un modesto 1,1% su base annua. Per quanto il mercato del lavoro rimanga solido (il livello di disoccupazione è sempre vicino ai minimi di sempre, “ancorato” al 3,6%), qualche segnale di rallentamento sembrano farsi largo (vedi, come scritto ieri, la diminuzione delle offerte di lavoro, ridotte, in 2 mesi, di circa 400.000 unità, o i licenziamenti, cresciuti a 1,8 ML, il livello più alto dal 2020. In più, a complicare le cose, l’acclarata situazione di crisi di alcune banche regionali, istituti di piccole-medie dimensioni, spesso sconosciuti oltre i confini degli Stati in cui operano, che si scoprono improvvisamente “fragili” a causa di politiche gestionali poco avvezze al “controllo del rischio”, elemento fondamentale in una fase in cui, come da 18 mesi a questa parte, le condizioni del mercato sono mutate, al punto di richiedere interventi fortemente restrittivi del credito e dell’azione monetaria. In molti casi ci troviamo di fronte ad una visione del business piuttosto limitata, con fortissime concentrazioni: nel caso della Silicon Valley era il settore tecnologico, nel caso della First Republic quello immobiliare, con il 65% dei crediti erogati destinato in quella direzione (e lo stesso, a grandi linee, vale per altri Istituti, come la Valley National Bank o la East West Bank, nomi quasi sconosciuti fino ad un paio di giorni fa, ma balzate agli onori delle cronaca finanziaria a causa delle forti perdite di borsa, con valori scesi di oltre il 50% rispetto ai livelli di marzo). A chiudere il quadro, la crisi del debito pubblico Usa, con il rischio paralisi se non viene trovato in tempi brevi un accordo tra gli opposti schieramenti che si dividono il Congresso.
Oggi è attesa la decisione della BCE, con il mercato che sembra scommettere, più che sull’entità del rialzo, sul “punto di arrivo” dei tassi, visto al 3,75%. Il che potrebbe significare un aumento dello 0,50% odierno e poi un altro dello 0,25%, ovvero 3 aumenti dello 0,25% cadauno. Inoltre, potrebbe essere preso in considerazione un’ulteriore implementazione del quantitative tightening, vale a dire la riduzione dell’entità dei titoli acquistati mensilmente, oggi fissata in € 15 MD mese, ammontare che potrebbe essere anche azzerato.
Ieri i mercati americani, dopo un avvio positivo, hanno fatto retromarcia, chiudendo con perdite comprese tra lo 0,64% (Nasdaq) e lo 0,80% (Dow Jones).
Questa mattina i futures sembrano voler interpretare in maniera positiva le dichiarazioni di Powell. Il loro andamento positivo “traina” gli indici asiatici: ancora chiusa la piazza di Tokyo, Shanghai sale dello 0,73%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng cresce dello 0,81%.
In Europa previste apertura appena sotto la pari.
Non si ferma lo scivolone del petrolio, con il WTI sceso a $ 68,96.
Gas naturale americano a $ 2,171 (- 0,09), mentre quello europeo ieri veniva scambiato a € 37 per megawattora.
Oro a $ 2.046, in crescita anche questa mattina (+ 0,38%).
Spread a 186,8 bp, con il BTP al 4,13%.
Treasury al 3,33%, dal 3,42% di ieri.
€/$ poco mosso a 1,1077, segno che le attese sulle decisioni della BCE dovrebbe seguire quelle della FED di ieri.
Bitcoin a $ 29.325, un movimento che sembra avvalorare la tesi di chi lo vede “correlato” all’andamento dell’oro (la qual cosa sembra ancor di più un paradosso).
Ps: si fa tanto parlare, in questi giorni, del cuneo fiscale, vale a dire l’incidenza degli oneri fiscali e previdenziali sul costo del lavoro, tra i maggiori in Europa. Peraltro, un’ora di lavoro in Italia costa € 29,4, contro una media UE di 30,5, che diventa di € 34,3 nell’area €. Molto meno dei 40,8€ della Francia o dei 39,5€ della Germania. Ma molti di più dei 23,5 della Spagna o dei 16,1 del Portogallo.