Non più tardi di venerdì si accennava alle straordinarie capacità di adattamento dell’essere umano, qualità che permettono in molti casi di superare situazioni ritenute non di rado proibitive.
L’assuefazione è forse una sua declinazione, esprimendo l’adattabilità al “nuovo”, anche il più difficile, sino a farlo diventare “la nuova norma”: lo “straordinario” che diventa “ordinario”, l’eccezionalità che diventa regola, l’imprevedibilità che diventa quotidianità.
Anche così si può leggere quanto è successo (e sta ancora succedendo) ai mercati dopo 12 mesi di guerra.
Lo shock del conflitto, come nel caso della pandemia, è stato assorbito piuttosto velocemente, se è vero che a distanza di 1 anno dal suo inizio, molti mercati, soprattutto quelli europei, i più direttamente coinvolti, hanno completamente recuperato le perdite, con performance oggi positive. Una conferma, sotto certi aspetti, della loro capacità di “ristrutturare” i cigni neri, quegli eventi, cioè, imprevisti e imprevedibili, che possono diventare devastanti per il genere umano e, quindi, anche per i mercati finanziari. Quasi a voler dimostrare la “supremazia” delle leggi economiche e la capacità di trovare soluzioni in grado di risolvere anche i problemi più grandi. Perché questo, in fondo, è quello che è successo negli ultimi mesi, sia da un punto di vista strettamente economico-finanziario che geopolitico.
Sul 2°, sappiamo quale sia il “gioco” delle alleanze, con “l’invasore” piuttosto isolato (a parte qualche Paese più estremista), con la Cina che sta cercando una via di uscita “onorevole”, forte del fatto che l’economia russa oggi per buona parte dipende da lei, e il fronte occidentale per il momento piuttosto compatto, seppur con qualche punto di vista diverso sulla fornitura di armi.
Diverso il discorso sul fronte economico, per il quale subentrano altre concomitanze. Uno degli effetti della guerra, come è noto, è un livello di inflazione a cui non si assisteva da decenni. Certamente l’aumento dei prezzi delle materie energetiche ha trovato terreno fertile grazie alle politiche ultraespansive messe in atto dalle Banche Centrali da qualche anno a questa parte: la guerra, quindi, non è l’unica causa del momento che stiamo attraversando, almeno per quanto riguarda i prezzi.
Aspetto che forse risulta ancora più chiaro se guardiamo al diverso andamento dei mercati azionari rispetto a quelli obbligazionari.
I primi, come detto, in molti casi hanno oggi un valore superiore in confronto a 12 mesi fa: a Parigi il Cac 40 è a + 7,9%, a Francoforte Dax + 5,8%, a Londra, FTSE 100 5,5%, Milano Ftse Mib + 5,1%. Ancora negativa Wall Street, dove lo S&P è “sotto” ancora del 5,1%, il Nasdaq di oltre l’11%, e Shanghai, con – 5,8%. Soltanto 5 mesi fa la situazione era ben peggiore, con perdite generalizzate che andavano dal – 13% ad oltre – 30% (Nasdaq). Il “rimbalzo” è iniziato grazie “all’entrata in gioco” di diversi elementi: la consapevolezza che il conflitto non avrebbe subito un “upgrade” nucleare, l’arrivo di un inverno non particolarmente rigido, che ha permesso minori consumi e quindi stoccaggi ben superiori, un sempre minor rischio recessivo, un’inflazione che è sembrata essere più sotto controllo, la percezione, strettamente collegata al punto precedente, che le Banche Centrali avrebbe “allentato la presa” (aspetto, quest’ultimo, forse non più valido, in considerazione di una “resilienza” dell’inflazione maggiore del previsto, come confermano gli ultimi dati di venerdì arrivati dagli USA).
Diverso il discorso, invece, con riferimento all’andamento dei tassi.
Una rapida occhiata ai differenziali dei rendimenti dei titoli di stato decennali ce lo conferma. 12 mesi fa, il bund, ritenuto il “bene rifugio” per eccellenza, rendeva lo 0,22%: oggi siamo al 2,48%. L’Oat francese era allo 0,73%, oggi siamo al 2,95%. Il Treasury Usa viaggiava all’1,98%, oggi è al 3,88% (3,94% questa mattina). Il nostro BTP 1 anno fa era all’1,93%, oggi siamo al 4,37%: un rialzo, a ben vedere, percentualmente ben inferiore a quello dell’omologo titolo francese, per non parlare di quello tedesco (partendo, va detto, da livelli ben superiori).
Una “asimmetria” che sembra cancellare la mancanza di “decorrelazione” che si è manifestata l’anno scorso, quando, a parte le materie energetiche e il cambio €/$ , tutti gli asset hanno subito perdite rilevanti. Una asimmetria che, nel caso in cui il conflitto dovesse terminare, probabilmente potrebbe ulteriormente allargarsi: il “premio al rischio” geopolitico, infatti, verrebbe meno, mentre è probabile che l’inflazione è probabile che farebbe una maggior fatica a scendere, costringendo le Banche Centrali a mantenere più a lungo tassi elevati (“higher for longer”).
Questa mattina listini asiatici deboli, per quanto si stiano allontanando dai minimi di giornata: a Tokyo Nikkei – 0,11%, Shanghai – 0,28%, Hong Kong – 0,.58%.
Futures positivi sulle 2 sponde dell’Oceano, mentre il Vix è in leggero ritracciamento.
Petrolio ancora debole, con il WTI a $ 75,87 (- 0,68%).
Ancora in rialzo il gas naturale Usa, che si riavvicina ai $ 3 (2,668, + 2,28%).
Oro debole, a $ 1.817, – 0,10%.
Spread a 186,3, per un BTP al 4,37%.
Treasury a 3,94%, in rialzo rispetto a venerdì.
Continua il rafforzamento del $, con €/$ a 1,055.
In flessione il bitcoin, che scambia a $ 23.420, in ribasso dello 0,58%.
Ps: nel 2021, nell’Unione Europea i giovani hanno lasciato in media le abitazioni in cui vivevano con i genitori a 26,5 anni. L’età più bassa è quella fatta registrare dalla Svezia, dove i giovani vanno a vivere da soli a 19 anni. In Francia e Germania l’età media si attesta a 23,6 anni. In Portogallo l’età più alta: 33,8 anni. E da noi? I ragazzi “lasciano” casa a 29,9 anni. Che non sono così pochi. Quello che rimane difficile da stabilire è se si tratta di abitudini piuttosto che di presenza o meno di opportunità di lavoro. La cosa più probabile è che ci sia un po’ di una e un po’ dell’altra.