Per il settimo mese consecutivo l’inflazione (americana) scende, ma, contrariamente alle rilevazioni precedenti, sale sul mese.
Questa, in sintesi, la fotografia emersa dal dato uscito ieri pomeriggio. Un calo, a dire il vero, inferiore rispetto alle previsioni, che stimavano al 6,2% l’inflazione a gennaio, mentre ci si è fermati ad un livello superiore (6,4% dal precedente 6,5%). La core inflation è passata dal 5,7% al 5,6% (a settembre era al 6,6%). Continuando di questo passo, l’inflazione tendenziale potrebbe raggiungere a giugno il 4,6%, per poi riprendere la sua salita.
Questo è forse l’aspetto che maggiormente preoccupa gli organismi monetari e che potrebbe spingere a non “abbassare troppo la guardia”. Anche negli USA l’energia ha dato e sta continuando a dare segnali di debolezza; di contro, il prezzo delle abitazioni continua a salire (+ 7,9% l’ultima rilevazione, con un incremento mensile dello 0,7%). Un elemento particolarmente importante, visto il peso (32,7%) che il settore ha nella formazione dell’indice. Gli esperti, peraltro, ritengono che la stretta monetaria, che impatta radicalmente sul costo dei mutui, porterà nei prossimi mesi ad un’inversione della rotta, riportando i prezzi su valori più congrui.
Prima della comunicazione del dato, oltre l’83% degli analisti riteneva che la “marcia” per riportare i prezzi sotto controllo potesse continuare senza troppe fibrillazioni, mentre solo il 35% pensava che la recessione presentasse il conto. Probabile che oggi le percentuali siano un po’ diverse, anche se dai primi commenti che si leggono la sensazione è che le cose non dovrebbero cambiare di molto. Nelle dichiarazioni delle ultime settimane, la FED (con la BCE comunque “allineata”) ha fatto capire chiaramente che la politica del rigore non è assolutamente finita: quello che cambia, piuttosto, è l’approccio, che passa da “interventi a prescindere” fino al momento in cui i prezzi non sono “tornati nei ranghi” (ergo il raggiungimento dell’obiettivo target del 2%) ad interventi, invece, “modulati” in base alle situazioni che, di volta in volta, si presenteranno. In questo caso, in considerazione del fatto che il calo è stato solo di un decimale e che, soprattutto, su base mensile, i prezzi sono aumentati più del previsto, il mercato “scommette” su 2 nuovi rialzi, con i tassi FED che arriveranno al 5,25% (se non al 5,50%), per poi tornare verso il 5% verso l’ultima parte dell’anno. Una versione rafforzata da quanto successo ieri sul fronte obbligazionario: “l’inversione” della curva ha toccato livelli che non si vedevano da circa 40 anni, con il rendimento del titolo a 2 anni che supera di circa 90 bp quello del decennale (4,61% vso 3,74%), mentre quelli a 6 mesi addirittura hanno superato la soglia del 5%.
Oggi sarà la volta dei dati sulle vendite al consumo, previste in aumento dell’1,9%. “Mettendo” insieme i pezzi (inflazione in calo, ma meno del previsto, occupazione ai massimi, vendite al dettaglio ancora in aumento) facile prevedere quale sarà il prossimo passo della FED, quasi “obbligata” a quel punto, a prendere “nuovi provvedimenti”.
Lo sanno bene i mercati, come le chiusure di ieri sera a Wall Street hanno (almeno parzialmente) confermato, con il Nasdaq che comunque è riuscito a tenere il rialzo (+ 0,71%), mentre il Dow Jones è arretrato dello 0,46%. Questa mattina tutti gli indici asiatici hanno il segno meno: a Tokyo Nikkei – 0,37, in Cina Shanghai – 0,39%, a Hong Kong Hang Seng – 1,66%, zavorrato dal calo della tecnologia. Chiusura negativa anche per la Corea del Sud, dove l’indice Kospi ha fatto segnare – 1,5%.
Futures in calo ovunque, con cali più marcati oltre oceano (Nasdaq – 0,64%, Dow – 0,35%, S&P 500 – 0,47%).
Tutte in calo le materie prime.
Il petrolio, come sempre quando i dati sull’inflazione lasciano intendere un rinnovato rigore delle Banche Centrali, torna sui suoi passi, con il WTI a $ 78,08, – 1,35%.
Gas naturale americano a $ 2,543, – 1,13%.
Gas naturale allo snodo di Amsterdam € 52,70 per megawattora.
Oro a $ 1.854,70, – 0,66%, che subisce la “concorrenza” dell’aumento dei tassi a breve.
Spread a 177,9, per un BTP sempre intorno al 4,15%.
Treasury al 3,74%.
€/$ poco mosso, a 1,0713.
Torna sopra i $ 22.000 il bitcoin (22.148,70).
Ps: ormai il “lavoro da remoto” è diventata una modalità senza ritorno, con la stragrande maggioranza delle aziende (soprattutto quelle di grandi dimensioni) che lo applicano regolarmente. Le conseguenze “sociali” sono ovviamente molto evidenti. Ma forse ancor di più lo sono quelle economiche. Secondo un’analisi di Nicholas Blooms, economista di Stanford, ribadito da Bloomberg, il “costo” per Manhattan, in termini di acquisti, intrattenimento, ristorazione, è pari a circa $ 12.4 MD all’anno, equivalenti ad una spesa procapite di $ 4.661. Un po’ meglio va a S. Francisco (minori spese procapite $ 3.040) e Chicago ($ 2.387). Per non parlare del trasporto pubblico: a New York la metropolitana è tornata a riempirsi solo per il 64% rispetto alla pre-pandemia, con una perdita valorizzata in circa $ 2MD all’anno.