Negli Stati Uniti, a gennaio, sono stati creati 517.000 nuovi posti di lavoro: un numero impensabile in una fase in cui la parola recessione non è mai stata così ricorrente. Il tasso di disoccupazione ha toccato il 3,4%, il livello più basso dal 1969. Eppure, non passa giorno in cui non si legga di grandi aziende, soprattutto nel settore tech, che decidono di “lasciare a casa” dipendenti e collaboratori: solo tra dicembre e gennaio sono stati annunciati oltre 100.000 licenziamenti.
Non sono pochi coloro che mettono in dubbio la veridicità dei numeri di gennaio: 517.000 nuovi posti di lavoro sembrano veramente tanti per un’economia che, per quanto non sia in recessione, qualche segno di cedimento lo evidenzia. Comunque sia, anche al netto dell’exploit di gennaio, nel 2022 gli USA sono stati in grado di creare una media di 375.000 posti di lavoro al mese. L’altro elemento che fa riflettere è la “diversificazione” dell’offerta di lavoro, con tutti i settori che hanno confermato la loro dinamicità, dall’ospitalità al manufatturiero, dal tempo libero alle costruzioni, forse quello ritenuto più in difficoltà.
Il dato, peraltro, è dato non solo dallo stato di buona salute dell’economia (non a caso l’indice Ism è passato da 49 a 55,2) ma anche dal minor tasso di partecipazione, vale a dire da coloro che cercano un lavoro. Un dato oggi inferiore ai livelli pre-pandemici: oggi siamo al 62,4% mentre allora stava stabilmente sopra il 63%. Senza contare che 20 anni fa si trovava oltre il 67%. Un sostanza, diminuendo il denominatore, il risultato permane positivo pur diminuendo l’offerta di lavoro. E poi l’andamento demografico: senza arrivare ai livelli del nostro Paese, anche negli Usa si assistono a variazioni di rilievo, con molte persone che vanno in pensione, mentre le nuove generazioni, sempre più ridotte, non sono in grado di “bilanciare” il peso delle uscite. Infine, dopo il Covid è nato il fenomeno, piuttosto diffuso anche in Europa, di chi lascia il posto di lavoro senza averne un altro a disposizione: calcola la FED che a novembre la popolazione che cercava un lavoro era scesa al 18,8% dal 24,7% di luglio (dato forse influenzato dai super-sussidi decisi dal Congresso Usa nel periodo del Covid, oggi però rientrati nella normalità).
Tutti fattori che aiutano a spiegare una certa cautela da parte delle Banche Centrali, oltre ad aiutare a comprendere modalità di comunicazione in apparenza contraddittorie e non sempre lineari: da una parte continuano a lanciare messaggi in cui confermano la linea del rigore, reiterando la necessità di “mantenere la linea” (lo “stay the course” dichiarato nell’ultima conferenza stampa dalla Lagarde), dall’altra appellandosi, invece, all’opportunità di attenersi ai dati che di volta in volta verranno comunicati, e quindi “navigando a vista”.
La settimana inizia con i mercati asiatici contrastati.
A Tokyo l’indice Nikkei sale dello 0,70% circa sulle indiscrezioni che l’attuale Governatore della Banca Centrale, Harukito Kuroda, in scadenza di mandato, verrà sostituito dal suo vice, Masayoshi Amamiya.
Negative invece le piazze Great China: pesano le vicende legate al pallone aerostatico abbattuto dagli Stati Uniti, che hanno portato all’annullamento a Pechino del Segretario di Stato Blinken. Shanghai arretra dello 0,76%, mentre Hong Kong arriva a perdere oltre il 2%.
Futures momento sotto la pari, con cali intorno allo 0,50%.
Petrolio in cerca di riscatto, dopo una settimana difficile: questa mattina il WTI è in crescita dello 0,50%, a $ 73,81.
Gas naturale Usa a $ 2,451, +1,54%.
Oro a $ 1.889,90, + 0,62%, fortemente penalizzato, la settimana scorsa, dal crollo degli spread.
Spread a 183,9, in risalita da venerdì.
Treasury Usa al 3,54%, in forte crescita rispetto al 3,37% di venerdì.
Le tensioni geo-politiche tra Usa e Cina rafforzano il $, che questa mattina scambia a 1,0795 verso €
Week end non semplice per le criptovalute, con il bitcoin che scambia sotto i $ 23.000, in calo dello 0,57% (22.805 $).
Ps: mentre da noi continua il “dibattito” sulla presenza o meno di Zelensky al festival di Sanremo (seppur con un video registrato), la guerra non da segni di rallentamento, dimostrandosi più forte del freddo. Intanto uno studio di una società canadese (SecDev, con sede ad Ottawa) ci dice che l’Ucraina si colloca al 4° posto al mondo per la produzione di risorse naturali, per un controvalore annuo pari a circa $ 15 miliardi, con un valore stimato che potrebbe raggiungere i 7,5 trilioni di $. L’Ucraina possiede i maggiori depositi di gas naturale in Europa, pari a circa 1,2 trilioni di metri cubi (con qualche stima che si spinge a 5,4 ML di mc3), di cui la maggior parte sul Mar Nero, guarda caso una delle zone contese. Per non parlare delle terre rare, di cui è la maggior produttrice in Europa (in attesa che la Svezia attivi i propri giacimenti, ma ci vorranno 10-15 anni).
Forse anche questi numeri ci possono fornire una chiave di lettura dell’aggressione russa (anche se non l’unica, e forse neanche la più importante).