Indubbiamente l’abito indossato ieri dalla Presidente BCE Christine Lagarde era da falco (qualcuno si è spinto a definirlo “da corvo” più ancora che da falco). Come tale è stato letto dagli operatori, con immediate ripercussioni sugli indici azionari e sugli spread, i primi in forte calo, i secondo in altrettanto forte rialzo.
Tutto è partito, in realtà, dal giorno precedente, quando il Presidente FED Jerome Powell, annunciando il nuovo ritocco dei tassi USA, senza troppi giri di parole aveva sostanzialmente dichiarato che la lotta all’inflazione sarà più lunga del previsto, obbligando la Banca centrale a tenere alta l’attenzione (e quindi, in parole povere, anche i tassi). Ancora una la BCE ha dovuto “inseguire” la sua omologa americana, una scelta peraltro quasi obbligata, viste le forti connessioni tra le 2 economie e le analogie sulla fase che le 2 aree stanno vivendo, pur essendo evidenti alcune differenze. Una per tutte le diverse origini dell’inflazione, da noi generata principalmente dall’esplosione dei prezzi delle materie energetiche, a cui si sono aggiunti altri fattori, dall’altra parte dell’Oceano invece derivata prevalentemente dall’aumento dei consumi in conseguenza di una fase economica fortemente espansiva, con la tendenza a trasferirsi sui salari, cosa che preoccupa molto analisti ed economisti.
Le parole di ieri della Lagarde, quindi, assomigliano parecchio a quelle pronunciate mercoledì da Powell. “La strada da fare è ancora lunga” ha detto più volte, proiettando il mercato ben oltre l’orizzonte del 2023, confermando che la fase restrittiva non è destinata a chiudersi in tempi brevi. Non soltanto, quindi, al rialzo di ieri ne seguiranno altri (si parla già di 2 nuovi ritocchi, sempre dello 0,50%, uno già nella prossima riunione del 1 febbraio, l’altro probabilmente in quella successiva del 16 marzo, e non è detto che finisca lì), con i tassi (oggi al 2,5%) che quindi saranno destinati a salire oltre a quel 3% che molti ritenevano potesse essere il “punto di atterraggio”.
L’obiettivo dichiarato è sempre quello: riportare l’inflazione al livello target del 2%. E qui nascono alcune riflessioni.
Nel corso dell’anno che sta per chiudersi, l’indice medio dei prezzi, in Europa, è salito dell’8,4% medio (+ 0,3% rispetto alle proiezioni di settembre). Nel 2023 la crescita media dovrebbe assestarsi al 6,3%, per passare, nel 2024, al 3,4%. Essendo la matematica una scienza quasi perfetta, si arriva al 6,3% facendo (in maniera peraltro abbastanza spannometrica: per un conteggio assolutamente corretto si dovrebbero prendere in considerazione le singole variazioni mensili) la media tra il punto di partenza (appunto 8,4%) e quello di arrivo (4,2%): 8,4 + 4,2/2=6,3. Ora, appare abbastanza irrealistico che la media del 2024 possa essere del 3,4%, in quanto significherebbe che a fine 2024 l’inflazione dovrebbe essere ancora al 2,6%. Non a caso, lo stesso Vice Presidente della BCE, Victor Costancio, ha parlato di stime controverse.
Certamente, se le parole della Presidente Lagarde fossero confermate dai fatti, il rischio che l’area € possa andare incontro ad una frenata maggiore del previsto aumenta in maniera esponenziale, con caduta della produzione industriale e utili in drastica diminuzione. Da qui la rovinosa caduta degli indici europei e americani di ieri, con perdite superiori al 3%. Uno scivolone causato non solo dalle previsioni di una situazione di tassi alti per un periodo più lungo del previsto, ma anche dalla conferma che da marzo la BCE inizierà l’azione di riduzione del proprio Bilancio ad un ritmo di circa € 15 MD mese, i cui dettagli verranno forniti a febbraio. Da qui l’impennata dello spread, salito in un baleno a 210 bp. Anche in questo caso la ragione è evidente, essendo il nostro Paese tra i più indebitati (è di ieri la notizia che il nostro debito pubblico è salito a € 2.770 MD, nuovo record storico: tradotto, ogni cittadino italiano si porta sulle spalle un fardello di circa € 47.000). Per l’anno prossimo si prevedono emissioni di titoli di stato per un valore di circa € 450 MD, fatto sì da rinnovi di titoli che giungeranno a scadenza, ma anche da altri € 70 MD di nuovo debito. Venendo meno il “paracadute” della BCE (che in questi anni ha “drenato” non poco le emissioni dei vari stati membri), il mercato ritiene che per il nostro Tesoro sarà un po’ più difficile “piazzare” i propri titoli, se non a rendimenti maggiori. E qui subentrano altre riflessioni, la prima delle quali è l’assoluta necessità di raggiungere gli obiettivi previsti dal PNRR per non perdere i 19MD in arrivo, oltre ad un’altra quindicina entro la prossima estate.
Dopo il ko di ieri, dall’Asia arrivano notizie non così brutali sull’andamento odierno dei mercati.
Il peggiore è il Nikkei di Tokyo, come noto il più “sensibile” alle chiusure occidentali, in calo di circa 1,9%.
Sulla parità Shanghai (– 0,025%), mentre ad Hong Kong l’indice Hang Seng cerca di “rialzare la testa” (+ 0,63%).
Futures frazionalmente negativi in USA, mentre in Europa lanciano segnali di recupero, con rialzi vicini allo 0,50%.
Pur in una giornata difficile come quella di ieri, segni di tenuta del petrolio, con il WTI appena sotto i $ 76 (75,92. – 0,34%).
In arretramento (- 4,92%) il gas naturale Usa, a $ 6,64.
Gas europeo (Ttf Amsterdam) a € 134,80 per megawattora.
Scivola sotto i $ 1.800 l’oro (1.778), “schiacciato” dal rialzo dei tassi.
Non si ferma, questa mattina, il “ritorno” dello spread, a 211 bp. Il contemporaneo rialzo del rendimento del Bund tedesco, tornato sopra il 2%, spinge i nostro BTP decennale nuovamente oltre il 4% (4,12%, massimo da 1 mese).
Treasury Usa a 3,45%.
€/$ stabile, a 1,0644.
Bitcoin a 17.495, + 0,78%.
Ps: e quindi, come detto, ogni cittadino italiano “si porta sulle spalle” un debito di circa € 47.000. La cosa diventa ancora più grave (o seria, ma forse, in questi casi, è meglio non parlare di “serietà”) se consideriamo che l’Italia è sempre più “un Paese per vecchi” (o di vecchi). L’età media è passata, negli ultimi 10 anni, da 43 a 46,2 anni (ma nella regione “più vecchia”, la Liguria, si arriva a 49,4). Il processo di invecchiamento appare ancora più evidente se guardiamo al rapporto anziani/bambini”. Nel 1951 ogni bambino c’era meno di un anziano. Nel 2011 il rapporto era passato a 3,8 anziani ogni bambino. Nel 2021 per ogni bambino si contavano 5,4 anziani. E un anno dopo la situazione quasi sicuramente è ancora peggiore.