Meno 0,2%. Questo è il differenziale tra l’inflazione che gli analisti si attendevano (7,9% su base annua) e il livello effettivo di fine ottobre (7,7%) dell’andamento dei prezzi negli USA. Un dato che può sembrare poco significativo, ma che invece cambia, e non di poco, la “prospettiva”. Si pensa, infatti, che anche il dato di dicembre (relativo al mese di novembre) possa indicare un nuovo calo, con un’inflazione che, su base annua, potrebbe stabilizzarsi tra il 3 e il 4%, facendo sembrare lontanissimo il 9,1% di inizio estate. Ancora meglio la situazione dell’inflazione core, che esclude energia e alimentari, salita del 6,3%(6,6% a settembre), contro le attese del 6,5%. La conferma che più che il “qui e ora”, i mercati, ancora una volta, già si proiettano al “dopo”. Da qui la corsa agli acquisti di ieri, con rialzi da “boom” economico: Nasdaq + 7,49%, Dow + 3,70%, S&P 500 + 5,54%, Dax + 3,5%, Mib + 2,58%, etc etc.
Quello che ha maggiormente sorpreso è il fatto che il calo dei prezzi sembra coinvolgere tutto il fronte, e non solo, come è capitato in altre occasioni, una delle voci (beni materiali o servizi). Va tenuto conto, infatti, che negli USA oltre 1/3 del peso del paniere che determina il livello di inflazione è dato dagli affitti delle abitazioni: il calo anche di questa componente, quindi, è valutato in maniera particolarmente positiva.
Rimangono, peraltro, alcune incognite, la più importante delle quali legata all’andamento dei prezzi dell’energia. Sul petrolio, per esempio, ultimamente ha pesato l’utilizzo delle riserve strategiche americane, che ha contribuito a tenere bassi i prezzi.
Un altro contributo significativo potrebbe arrivare dall’avvio delle nuove sanzioni europee verso la Russia, con l’attivazione di un tetto al prezzo del gas importato. Prezzo che non è stato ancora fissato, ma che quasi sicuramente sarà inferiore al livello attuale. Un provvedimento che, teoricamente, dovrebbe, appunto, far scendere il prezzo, ma che, nel caso la Russia rispondesse con un ulteriore taglio della produzione, potrebbe anche causare l’effetto opposto.
Comunque sia, i dati pubblicati ieri (oltre all’inflazione, quelli sui sussidi di disoccupazione, peggiori delle attese, cresciuti a 225.000 unità contro le stime di 220.000) portano a pensare che nella prossima riunione della FED (13-14 dicembre) Powell possa fermare il rialzo allo 0,50% anziché allo 0,75% come, sino a ieri, molti ritenevano. Si inizia a pensare, pertanto, che si stia avvicinando il momento del famoso “pivot”, il picco dei tassi, stimato, dai mercati, al 4,85% (tassi USA)per i primi mesi del 2023.
Rimangono comunque ancora diverse incognite che potrebbero “deviare” il percorso. Ad iniziare, come detto, dal mercato del lavoro: va ricordato che l’inflazione diventa particolarmente difficile da debellare nel momento in cui si “trasferisce” sui salari. Cosa, per il momento, avvenuta solo marginalmente: il rischio che, in fase di rinegoziazione contrattuale, le retribuzioni vengano adeguate è sempre presente, spingendo le autorità monetarie a tenere alta l’attenzione.
Rimanendo sempre nell’ambito del lavoro, è probabile che si assisterà ad una “riorganizzazione” delle attività, come alcuni segnali già ci dicono (vedi Facebook-Meta, che ha comunicato che lascerà a casa circa 11.000 dipendenti, per non parlare di Twitter – ma lì il discorso si fa diverso, avendo a che fare con un certo Elon Musk…- che dimezzerà la propria forza lavoro) che la strada è decisa. Non a caso, le prime ad iniziare sono le aziende tech: il settore della tecnologia è quello che maggiormente “ha pagato” il rialzo dei tassi, essendo il più indebitato, e la crisi produttiva avvertita nei mesi scorsi a causa della scarsità di microchips. Facile pensare che, ora, potrebbe essere il primo a ripartire.
Ulteriore attenzione va prestata alle politiche fiscali, che continuano ad essere espansive (vd, per esempio, quanto sta succedendo in molti Paesi per combattere il caro energia): motivo in più, per le Banche Centrali, a non mollare “la presa”, andando a bilanciare, in questo modo, la percezione di “maggior denaro” in circolo, benzina per l’inflazione.
Rimane il fatto che lo shock inflazionistico degli ultimi mesi è tra i più gravi che si ricordino: un buon motivo per far si che, con velocità, anche se probabilmente non uguale, si possa tornare a livelli più moderati (comunque superiori allo “zero” di qualche mese fa: a ben pensarci, la vera “bolla” su cui è maturato il rialzo dei prezzi, aggravato, in seguito da altri fattori “esogeni”, in primis la guerra in Ucraina, con le conseguenze ben note sull’energia).
La “scintilla” di Wall Street non poteva non appiccicare il fuoco anche dall’altra parte del mondo. Mercati asiatici, come prevedibile, ben intonati, con Tokyo a + 2,98% e Shanghai a + 1,69%. Euforica Hong Kong, dove l’Hang Seng sfreccia a + 7,44%.
Futures che sono premonitori di una nuova giornata all’insegna della positività, con rialzi vicini all’1% un po’ ovunque.
Petrolio che torna a crescere, con il WTI a $ 88,77, + 2,54%.
Gas naturale Usa a $ 6,324, + 1,17%.
Oro che non può esimersi dall’accodarsi: questa mattina tratta a $ 1.765, + 0,59%.
Spread che scende sotto i 200bp (197,7), spingendo i BTP sotto la soglia del 4%, livello che non toccavano da mesi.
Fortissimo calo del Treasury USA, che vede i rendimenti portarsi al 3,81%, con una discesa di ben 27 punti dal 4,08% del giorno prima.
Bund tedesco sotto il 2%.
A beneficiare delle nuove prospettive l’€, che questa mattina troviamo a 1,0232 vso $.
Cerca di riprendersi il bitcoin: dopo essere sceso sin verso i $ 15.000, questa mattina lo troviamo a $ 17.400 (+ 3,73%).
Ps: nel luglio 2021 (cioè ieri…), Sam Banckam- Fried (31 anni), fondatore e proprietario di FTX, una delle principali piattaforme utilizzate per lo scambio di asset digitali, aveva dichiarato che la sua “creatura” aveva così tanta liquidità che poteva permettersi di comprare una banca d’Affari come Goldman Sachs senza far ricorso al debito. La valutazione aveva raggiunto i $ 32 MD in pochissimo tempo. Se non che si è scoperto un “piccolo” buco di $ 8MD. Che ha portato la società praticamente al fallimento (quasi certo dopo il ritiro di Binance, che in un primo tempo aveva pensato al salvataggio, forse anche per cercare di evitare il possibile effetto “contagio”). Tanto da far dire a molti che Ftx è la nuova “Lehman brothers”. Ma, fortunatamente, quello delle criptovalute è ancora un mercato di nicchia, ben lontano dall’economia reale.