Si fanno sempre più forti le pressioni affinchè l’Europa, e quindi non solo la UE, arrivi all’embargo totale, se non per tutti i prodotti legati all’energia, almeno per il petrolio proveniente dalla Russia. Più complessa la situazione riguardante il gas, per il quale, se dovesse interrompersi il flusso attraverso i gasdotti che arrivano da est, si renderebbero necessari nuovi de-gassificatori in grado di riprodurre lo stato gassoso. Oltre che, ovviamente, stabilire nuovi accordi con altri Paesi produttori che rendano possibile sostituire i 29 miliardi di mc3 che arrivano ogni anno dalla Russia, pari a circa il 40% del totale dell’import italiano (in realtà sulle importazioni totali di energia di cui ha bisogno il nostro Paese, il “peso” del gas russo è pari al 16%): secondo Cingolani, il Ministro per la transizione ecologica, in 18 mesi l’Italia sarà in grado di affrancarsi dalla dipendenza dalle forniture russe. La Gran Bretagna ha già dichiarato che entro fine anno farà a meno del petrolio russo, mentre in un secondo momento rinuncerà anche al gas. Più complessa la posizione della Germania, che, tra le economie più forti, è quella maggiormente dipendente da Mosca. Da agosto non importerà più carbone (uno dei paradossi più evidenti causati dalla guerra, se si pensa che fino a poche settimane fa era considerato il maggior fattore inquinante), ma la “pressione” dell’imprenditoria rende difficile l’azione del Governo rispetto al tema dell’embargo.
Che le sanzioni qualche effetto stiano iniziando a produrlo lo si è capito dalle parole dell’altro giorno della Presidente della Banca Centrale russa, Elvira Nabiullina, prontamente smentita da Putin: nel 1° trimestre (e quindi una periodo dove solo in parte le sanzioni sono entrate in vigore) le esportazioni russe sono scese dell’8%, mentre ben maggiore (17%) è il calo delle importazioni. Dati confermati anche da altri fattori legati al commercio: le attività navali, per esempio, sono crollate, con il traffico nei principali porti (San Pietroburgo, Vladivostok) dimezzato. L’inflazione ormai è al 20%. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, nelle prime settimane di guerra si contano circa 60.000 licenziamenti e 95.000 congedi. Dati oltremodo ottimistici, se è vero che lo stesso sindaco di Mosca ha dichiarato che solo nella capitale i posti a rischio per la chiusura delle attività riconducibili ad imprese occidentali sarebbero non meno di 200.000.
Il PIL è stimato in calo, per il 2022, tra il 10 e il 15% (oggi siamo a circa – 8,5%), ma se le restrizioni dovessero ulteriormente estendersi potrebbe arrivare, nel 2023, al – 17%. Certamente ben poca cosa se paragonato a quanto sta succedendo all’economia ucraina, che quest’anno crollerà del 35%. Senza contare quello che potrebbe accadere tra pochi giorni: il 4 maggio, infatti, scadrà il termine di 1 mese entro cui la Russia dovrà rimborsare un eurobond denominato in $, arrivato a scadenza il 4 aprile, oltre che gli interessi, per $ 649 ML. Rimborsi che Putin ha cercato di effettuare in rubli, violando il “blocco” imposto dall’occidente, opzione contrattualmente non prevista, per cui, se così rimanesse (cosa che tutti pensano succeda) scatterà il default.
Il tutto mentre la guerra, quella vera, la più terribile, continua, con l’esercito russo sempre più vicino alla conquista della città (ormai spettrale) di Mariupol sul mar Nero, che consentirebbe di conquistare tutta la striscia di terra che collega il Donbass alla Crimea, permettendo quindi a Putin di realizzare quello che è sempre apparso il suo disegno, iniziato 8 anni fa.
Ieri mercato tecnologico statunitense sotto “choc” per il crollo di Netflix (- 36%), che ha bruciato $ 50MD di capitalizzazione. Il Nasdaq ha ceduto l’1,49%, mentre il Dow Jones ha confermato la sua “resilienza”, chiudendo in territorio positivo (+ 0,71%).
Questa mattina il Nikkei conferma la sua fase positiva (favorita anche dalla debolezza dello yen) con un rialzo di oltre l’1% (1,23%).
Deboli invece gli indici great China, con Shanghai che perde l’1,93% e Hong Kong l’1,80% quando oramai manca poco alla chiusura.
Futures positivi, con Wall Street che sale di circa mezzo punto, mentre l’Eurostoxx è in progresso dello 0,20%.
Petrolio stabile, con il WTI a $ 103,5 (+ 1,19%).
Scende sotto i $ 7 (6,817) il gas (- 1,86%).
Oro a $ 1.955.
Torna a crescere lo spread, che tocca i 166 bp, con il BTP oramai al 2,60%.
Treasury sempre intorno al 2.90%.
€/$ a 1,088, con l’€ leggermente debole dopo che il Governatore della Bundesbank, Joachim Nagel, ha detto di essere contrario ad aumenti affrettati dei tassi da parte della BCE e che si aspetta decisioni in tal senso solo a partire dal 3° trimestre 2022.
Bitcoin stabile a $ 41.550.
Ps: come detto, ieri Netflix ha conosciuto la sua peggior giornata borsistica, arrivando a perdere anche il 40% del proprio valore. Per la prima volta, infatti, ha registrato un calo, seppur modesto, di abbonati, passati da 221,8ML a 221,6ML. Solo 200.000, pari allo 0.1%, ma sufficienti a far scattare un “profit warning”. A preoccupare le previsioni future, che indicano un prossimo caldo di altri 2ML di utenti. Concorrenza, peggioramento dell’offerta, il fenomeno della password sharing (la pratica di fornire a conoscenti e amici la password di accesso) e, soprattutto, il ritorno alla vita normale le cause del peggioramento dei dati aziendali. Peraltro, va detto che la società ha fatto comunque registrare un fatturato di $ 7.8MD con un utile di $ 1.6MD, sostanzialmente pari a quello dell’anno scorso.